È appena terminata la II edizione di “Recidiva Zero. Studio, formazione e lavoro in carcere e fuori dal carcere”, giornata di lavoro organizzata dal CNEL in collaborazione con il Ministero della Giustizia. L’obiettivo è di favorire e promuovere l’inclusione sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale. L’iniziativa si inserisce nel quadro dell’Accordo interistituzionale sottoscritto nel giugno 2023 tra CNEL e Ministero della Giustizia e fa seguito alla I edizione che si è tenuta il 16 aprile dello scorso anno. Numerosi gli interventi e le proposte dei soggetti coinvolti in questo percorso incentrato sull’attivazione di strumenti strutturali e multilivello. Un passo di civiltà per il nostro Paese, seppure tardivo, che rimette al centro il valore del lavoro come strumento di emancipazione per le persone ristrette e una visione del detenuto come portatore di diritti inalienabili. In questo scenario, dirimente è il ruolo delle cooperative sociali, la cui mission non è il profitto ma l’integrazione e il reinserimento sociale. Ne parla in questa intervista Stefano Granata, presidente di Confcooperative Federsolidarietà.
Quali i principali risultati di questo incontro?
Il primo risultato è l’aver messo attorno allo stesso tavolo tutti gli interlocutori: l’amministrazione carceraria, la politica, la parte organizzativa e il mondo delle imprese, in cui ovviamente c’è la cooperazione. Va dato il merito al Cnel di aver acceso un faro importante sulle carceri, tema purtroppo non in cima all’agenda politica pur essendo un problema non degno di un Paese civile. Ci sono 62.000 persone recluse dentro le case circondariali, ma bisogna ricordare anche le altre 250.000 che gravitano attorno all’esecuzione penale in generale. Il secondo risultato, invece, è di aver radicato un patto tra il mondo delle imprese e l’amministrazione carceraria rispetto al tema del lavoro, senza il quale è difficile pensare a un reale reinserimento delle persone. Il titolo dell’iniziativa, “Recidiva Zero”, sintetizza i risultati prodotti in questi anni, che dimostrano che il 90% delle persone inserite nel circuito lavorativo durante il periodo detentivo non commettono reati una volta scontata la pena; percentuale che viene ribaltata – anzi, peggiorata – per chi non lavora, che una volta fuori dal carcere torna a commettere reati.
L’incontro è stato anche l’occasione per avanzare delle proposte. Quali avete presentato come Confcooperative Federsolidarietà?
Per un’impresa è molto difficile entrare in carcere sia per via di lacci e lacciuoli burocratici che per una indisposizione di alcune direzioni carcerarie che ne scoraggia l’intervento. I dati della Legge Smuraglia, che prevede agevolazioni fiscali per imprese che operano in carcere, evidenziano che le più alte quote di lavoratori in carcere sono gestiti dalla cooperazione sociale: innanzitutto perché sono più resilienti rispetto alle altre imprese – evidenza emersa anche dalla ricerca del Cnel presentata nell’incontro – e poi perché il primo obiettivo della cooperazione sociale è proprio l’inserimento lavorativo delle persone fragili, non il perseguimento di uno scopo economico-finanziario. In secondo luogo, abbiamo precisato che non basta solo l’intervento formativo e prima ancora quello dell’istruzione, ma è fondamentale anche l’accompagnamento delle persone: tra la popolazione carceraria, il 50% dei detenuti ha problemi di salute mentale legato a dipendenze da sostanze, il che rende evidente l’ampio spettro di fragilità di queste persone per le quali vanno creati elementi di accompagnamento che possono portare a frutto l’inclusione lavorativa. Servono quindi dei modelli organizzativi, come quelli delle cooperative sociali, improntati alla creazione di percorsi più flessibili. “Recidiva Zero” significa abbattere la permanenza in carcere, ma bisogna considerare anche tutti coloro che sono inseriti nelle misure alternative che però fuori dal carcere non trovano sbocco perché non hanno appoggi. In questo senso, trovare una soluzione abitativa per quei detenuti, oltre a contenere la recidiva, significa anche abbattere il sovraffollamento.
I ministro Nordio, presente all’incontro, ha parlato di un “progetto ampio per portare nelle carceri un filo di speranza, se non di ottimismo”. Cosa rileva, a livello di responsabilità, questa affermazione?
Credo che il Ministro si riferisse al pessimo clima che c’è nelle carceri, in cui c’è un malessere diffuso che si riflette spesso in episodi di violenza – reciproca, autoriferita e anche nei confronti della polizia penitenziaria. Bisogna abbattere questa soglia tenendo aperto un filtro con la realtà extracarceraria e riportare dentro non solo il lavoro ma anche, per esempio, istituti come la cultura e lo sport. Il filo di speranza è questo: avere in carcere cose che ti sono precluse, che ti fanno intravedere la luce in fondo al tunnel. Il tasso di suicidi che ha colpito la popolazione carceraria è un’evidenza conclamata del disagio di queste persone, che tra l’altro smentisce i precetti della nostra Costituzione. Questa è una battaglia di civiltà, oltre che di equità e giustizia. Ma per dare questo filo di speranza bisogna dotarsi di interventi concreti.
Rispetto all’attuale situazione di sovraffollamento, congiuntamente all’inasprimento delle norme con il decreto sicurezza, non sembra che si vada in direzione contraria agli obiettivi di Recidiva Zero?
A causa del caldo estremo, nei giorni scorsi ci sono stati degli episodi di protesta in alcuni istituti carcerari che rischiano di avere conseguenze più severe per via delle disposizioni del nuovo decreto. Purtroppo fa parte delle contraddizioni del mondo carcerario. Non si può uscire da questa bolla con uno schiocco di dita: è un percorso che richiede tempo, per di più in un Paese che non investe più di tanto nelle carceri. Il coinvolgimento delle parti datoriali in queste situazioni è fondamentale, perché le risorse pubbliche di per sé non bastano. D’altro canto non credo che una semplice ristrutturazione architettonica degli edifici risolva il problema, che riguarda principalmente la qualità della vita dei detenuti. Gli istituti sono desueti, sovraffollati, le opportunità di lavoro sono poche: se mettiamo insieme tutti questi fattori la situazione risulta disastrosa. Ma da qualche parte bisogna iniziare e farlo dal lavoro, aprendo ai detenuti-lavoratori, è un primo passo.
Una situazione disastrosa che non è certo dell’ultima ora…
È una questione culturale che bisogna ribaltare e non può essere fatto solo dal punto di vista normativo, ma deve essere un passaggio di coscienza collettiva. Oggi il carcere sembra un problema che non riguarda nessuno se non quelli che ci stanno dentro e più ci stanno dentro meglio è. In questo senso anche il mondo della comunicazione ha delle responsabilità: sul tema l’opinione pubblica è facilmente condizionabile in senso negativo. Penso all’episodio del detenuto di Bollate che, fuori per lavoro, ha commesso un omicidio-suicidio. Subito si è cavalcato il sensazionalismo della storia, invocando che i detenuti non vadano fatti uscire nemmeno per lavoro per non correre rischi. Certo alcuni di loro non godono di piena salute mentale, ma quello è stato un episodio isolato per il quale non si può bloccare un intero sistema e far sì che altri detenuti ne paghino le conseguenze.
Entrando nel merito del vostro impegno, per voi la cooperativa sociale è un vero e proprio ponte tra carcere e lavoro. In che modo?
Le cooperative sociali sono le più presenti in carcere, anche perché l’impegno primario non è certo quello di fare business ma di dare l’opportunità alle persone di reinserirsi nella comunità. L’impresa è un mezzo, non è il fine. Negli anni le cooperative hanno trovato diversi ostacoli, perché molto dipende dalla responsabilità dell’amministrazione carceraria che ha un potere discrezionale rilevante: ce ne sono di più propense, più visionarie e culturalmente orientate, e altre che sono più farraginose nei loro atteggiamenti. Mediamente le cooperative che sono nel carcere sono di piccola dimensione – proprio perché non possono svolgere una vera e propria attività di mercato per via dei contingentamenti dettati dalla situazione – e ci sono anche quelle danno l’opportunità a questi detenuti di fare l’esecuzione penale esterna. Il reinserimento delle persone fragili fa parte proprio della nostra mission e questo favorisce un maggior flusso di persone.
A marzo è stato presentato un progetto innovativo che estende ai detenuti l’utilizzo di SIISL (Sistema Informativo per l’Inclusione Sociale e Lavorativa) integrandolo con il programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori). Ci sono criticità a riguardo?
Il ministero del Lavoro ha messo a disposizione questa piattaforma che tiene conto del bilancio delle competenze, del possibile percorso formativo fino al matching domanda-offerta. Ma questo funziona se ci sono una serie di azioni collaterali di sostegno che tengano conto delle fragilità delle persone: da sole non riuscirebbero ad assolvere questa fase. Nel corso dell’incontro, poi, Sviluppo Italia ha annunciato un progetto che va a incentivare l’utilizzo di questi strumenti costituendo anche delle cabine di regia che coinvolgano tutti i soggetti. Questa è una vera governance condivisa ed è quello di cui c’è bisogno per far sì che il sistema funzioni.
Confcooperative Federsolidarietà sta sviluppando anche una piattaforma tra le proprie cooperative sociali, imprese sociali e consorzi. Di che si tratta?
È un tentativo a doppio binario. Da una parte è una piattaforma che evidenzia la nostra offerta abitativa, una sorta di mappatura che permette di comparare il fabbisogno e la capacità di risposta sui diversi territori. Dall’altra, è una una piattaforma che si indirizza alle filiere produttive. Obiettivo, infatti, è dare vita a delle vere e proprie filiere industriali che generano un effetto moltiplicatore dal punto di vista delle opportunità di lavoro e dell’ingresso nel mercato.
L’articolo 45 della Costituzione riconosce la funzione sociale della cooperazione e ne promuove l’incremento. Crede che questo articolo sia disatteso? Il vostro lavoro è sussidiario o supplettivo allo Stato?
È capitato che la cooperazione avesse un ruolo supplettivo, per esempio nel sociale, ma il compito primario resta sussidiario: la cooperativa concorre al benessere della comunità, lo dice la stessa legge, tant’è vero che in generale le viene riconosciuta una funzione quasi pubblica sebbene siano soggetti di diritto privato, perché è l’interesse generale la finalità del lavoro della cooperativa, non quello particolare. Nella cooperazione è riconosciuta non solo la mutualità interna per il raggiungimento degli scopi dei soci, ma anche la mutualità esterna nell’interesse dell’intera comunità.
Quindi lei crede che i vari Governi che si sono succeduti siano stati coerenti con il dettato costituzionale?
Spesso hanno faticato a essere coerenti. Le cooperative svolgono un ruolo importante nel Paese, quindi nessun Governo si azzarda a non riconoscerne la funzione, ma certo non c’è una corsa all’incentivazione. La sussidiarietà prevede una concertazione, una co-programmazione, una cabina di regia condivisa e su questo si è sempre fatto fatica.
Il disegno di legge sull’inclusione socio lavorativa e l’abbattimento del recidiva delle persone sottoposte a provvedimenti limitativi o restrittivi della libertà personale procede nel suo iter. Quali le vostre priorità in tal senso?
Che venga riconosciuta la singolarità, e non l’esclusività, della cooperazione di inclusione lavorativa e quindi la possibilità di usare il nostro contratto che contiene anche normative che tengono conto della fragilità di queste persone; che ci sia quell’alveo normativo che riconosca che le persone fragili possano lavorare ma con strumenti che siano diversi.
Allo stato delle cose, in Italia il reinserimento sociale dei detenuti è sostenibile?
Assolutamente sì e lo dimostrano i dati: quei pochi che hanno possibilità di lavorare nei percorsi di reinserimento hanno numericamente un successo incredibile in termini di risultato. Viceversa chi non ha questa opportunità resta con la prospettiva della galera a vita. Noi vorremmo che i risultati positivi conseguiti in tanti anni, non solo nei due del programma “Recidiva Zero”, assumessero una dimensione molto più vasta e che riguardassero anche le imprese, di cui c’è bisogno per poter raggiungere il famigerato risultato della recidiva zero.
Elettra Raffaela Melucci