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Home - Blog - Civile e sociale: insieme sì, divisi mai

Civile e sociale: insieme sì, divisi mai

di Elettra Raffaela Melucci
24 Gennaio 2025
in Blog
Civile e sociale: insieme sì, divisi mai

Il lavoro è l’ingrediente principale dell’insalata di opinioni, disquisizioni e massime che si serve ormai tutti i giorni alla tavola di un Paese che pretende di fondarsi su questo diritto-dovere. “Senza distinzioni di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” è poi il condimento preferito dalle sinistre o presunte tali per aggiungere sapore al boccone dell’autocompiacimento. Alla fine, però, resta la fame di contenuti veri e propri. Ogni tanto si prova a sbocconcellare (con parsimonia) la pagnotta del salario minimo, ma con l’avvicinarsi dell’ora del pasto principale lo stomaco borbotta e il calo di zuccheri annebbia la vista. Stare a dieta, poi, diventa un esercizio ancora più complicato se nell’affollata sala altri commensali abbinano la ciccia all’insalata: livelli occupazionali al massimo, taglio del cuneo fiscale, aumento degli indeterminati. Poco importa se i salari sono fermi da trent’anni, la foglia è stata mangiata ed è importante consumare almeno un alimento verde nei pasti principali. Ma quasi sempre gli sforzi pagano e la silhouette della sinistra lo dimostra: snella – anzi, magra – meglio: emaciata. Privata della sostanza della sua base storica, avvoltolata in una retorica morbida ma non suadente, impegnata a convincere prima sé stessa e poi gli altri. Assistere a decorso della sinistra è come assistere a un ciclo altrui di psicoterapia in un film interpretato da gente noiosa e di cui verrà sconsigliata la visione. Ed è difficile che le persone vogliano frequentare persone noiose nonché a dieta.

Non è che non ci sia vita da quelle parti, perché comunque un afflato ogni tanto spira. Per esempio – oltre che sulle richieste di dimissioni di questo o quest’altro ministro briccone – sui diritti civili: legittima bandiera che però non sventola se non sospinta dal vento delle politiche sociali. Di questi tempi, poi, dinner is served: appigliandoci al caso più clamoroso, Donald Trump ha (ri)dichiarato guerra alla “follia transgender”, ma stavolta giura sulla sua virilità di impegnarsi a vincere la battaglia – “La politica ufficiale del governo degli Stati Uniti sarà che ci siano solo due generi: uomo e donna”, ha affermato il tycoon inconsapevole che la transizione MtF o FtM implichi proprio la riassegnazione del sesso, quindi uomo o donna. Per dare un senso al ragionamento apparentemente scollato occorre fare un passo indietro e ricordare che anche per la teoretica l’Europa – ma diciamolo, l’Italia vive di luce riflessa rispetto a quanto accade dall’altra parte dell’oceano e tutte le disquisizioni sul genere (i cosiddetti gender studies, matrice dei transgender studies) sono giunte ai nostri pizzi con una dose di ritardo simile al tempo che intercorre tra l’esplosione di una stella e la nostra percezione. Nel frattempo, quindi, mentre noi ci eccitavamo a leggere Susan Sontag, Judith Butler e Donna Haraway e gridare al miracolo e strutturarci 300 moduli universitari e parlarne all’aperitivo con amici malvestiti – dicevamo, nel frattempo negli States la teoretica sul genere e sul transgenderismo diventava pratica, problematizzando e quindi capendo che senza legittimazione giuridica e sociale era inutile perdersi in chiacchiere e spendere centinaia di dollari al Village in vino californiano. Una cosa su tutte – ancora una volta: il lavoro. A titolo di esempio si cita la sentenza del 2020 promulgata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti in base alle quale nessuna persona può essere licenziata perché gay o transgender. Tutto frutto di una battaglia dal basso, dalla strada, strutturata rivendicazione civile che si è fatta politica. Ma qui siamo già oltre: l’impiego c’è.

Ed ecco che ritorna l’insalata insaporita con il condimento preferito della nostra sinistra: lavoro con una buona dose di discriminazione basata sul genere di appartenenza servita su un letto di orientamento sessuale. La sentenza è uno spunto interessante tanto quanto la teoretica, però in Italia si decide (anche negli Stati Uniti, per onestà) di perdere l’occasione e preoccuparsi invece delle parole. Che sono sì importanti, come disse un tale, ma non sostanziali. Non un fiato sul fatto che non si vedono trans negli uffici pubblici, negli esercizi privati, nelle aule di tribunale se non come testi o imputati, ma piuttosto si perdura ad accapigliarsi sulla schwa, sul genere neutro, sul fatto che non mi sento né uomo, né donna, né gatto, né nuvola; si accetta con una certa dose di commiserazione e pietismo che le donne trans finiscano obbligatoriamente sul marciapiede – lungi dal moralizzare la prostituzione, per cui urge una regolamentazione – perché nessuno (pubblico o privato) vuole assumerle al netto delle competenze, ma per la carriera alias ci si batterà con le unghie e con i denti.

Cosa penserà l’avventore del bar se a servirgli il caffè c’è un ragazzo trans? L’utente della pubblica amministrazione pagherà il su balzello con lo stesso entusiasmo se allo sportello c’è una donna trans a sbrigare la pratica? Come atteggiare il volto dinanzi al cliente di uno studio legale se il caso viene affidato a una o un giovane praticante che stra facendo la transizione? I progressisti (perché sono loro a prendere quantomeno in considerazione l’idea di assumere un individuo transessuale) sono ossessionati dal fornire una spiegazione al prossimo, incerti anche sulle loro vite, figuriamoci su quelle divergenti. Però basta il pensiero, in fondo “ho un sacco di amici gay”. E non si cederà alla tentazione di elencare la potenziale casistica di chi, per parafrasare, “meglio morto che frocio”. In assenza di una regolamentazione calata dall’alto che disciplini questa gravissima forma di discriminazione, la pretesa dei governanti di qualsiasi carriera politica è che queste donne e uomini vivano nella legalità ma al lordo di questi fattori, magari facendo la fotosintesi per sostentarsi e raccogliendo le monete d’oro dall’orto per rendersi meritevoli.

Alla comunità trans sta anche bene che ci si occupi del linguaggio, degli epiteti, dei bagni in cui andare a svuotarsi la vescica o rifarsi il trucco, ma quello che chiedono a gran voce sono i diritti: al lavoro innanzitutto – al non doversi mettere per strada per forza e scampare l’assedio alle carni in una declinazione o nell’altra; a una previdenza dignitosa – un po’ difficile beneficiare di contributi inesistenti o farseli versare da un magnaccia; alle cure – come essere ricoverate nel reparto di appartenenza; alla sicurezza – per non aver paura di uscire per strada e venire malmenati; alla rappresentanza politica – per far sì che a decidere delle proprie esistenze non siano sempre e solo gli altri che poi nemmeno sanno di cosa si parla. A quest’ultimo proposito si sottolinea che il caso cui tutti stiamo pensando è stato solo fortuito e per di più sfortunato, mentre piuttosto è doveroso citare il caso di Porpora Marcasciano – donna transgender, storica attivista dei diritti, fondatrice del Mit di Bologna e attualmente consigliera comunale a Bologna e presidente della Commissione consiliare parità e pari opportunità – che ha preso per sé e le sue consorelle lo spazio di spettanza nel baccagliare della politica.

La sinistra ci ha provato a misurarsi con quelle che non vanno contemplate come richieste ma, appunto, come diritti, però non lo ha fatto bene. L’ultimo intervento in ordine cronologico è il Ddl Zan che è stato affossato sì perché una parte dell’emiciclo è formata da individui che a malapena si sanno rifare il letto, ma anche perché è stato scritto con fretta e pressappochismo. La misura andava studiata, resa inattaccabile, difesa, eppure la fretta di segnare il punto ha presentato il conto. E comunque, anche qui, si è perso il focus: il diritto civile non può essere scisso da quello sociale. Protezione sì, ma integrazione attraverso il diritto sociale innanzitutto.

Il futuro fa paura, è fosco a prescindere dal genere, dalla razza, dalla confessione di appartenenza. Trump e i suoi elettori (tanti, tantissimi) fanno accapponare la pelle e siamo solo all’antipasto di un mandato molto più lungo di quattro anni. Ma non si può vivere di attendismo, aspettare che dal nuovo mondo arrivi qualcosa di brutto o bello che sia: occorre che la sinistra rifletta bene e in fretta sui propri obiettivi, che da questi baluardi identitari riesca finalmente a estrarre una politica concreta senza giocare con il pallottoliere dei voti: la comunità trans non è un elettorato forte, ma fare politica non significa solo accumulare preferenze.

Elettra Raffaela Melucci

Elettra Raffaela Melucci

Elettra Raffaela Melucci

Redattrice de Il diario del lavoro

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