Il fascino che il sindacato ancora esercita su tutti coloro che per professione, vocazione o passione si occupano dei problemi del lavoro è una prima prova della attualità del fenomeno. L’ampio e autorevole dibattito che si è svolto su queste pagine a proposito dei risultati della ricerca Breakback, coordinata dalla CISL ne è ulteriore testimonianza. Non è così per la larga parte dei capitoli del diritto del lavoro, soggetti a variazioni di interesse connesse ai momenti storici, alle sfide socio-economiche, alla evoluzione legislativa.
La ragione dei tanti interventi letti sul Diario del Lavoro non è soltanto la curiosità innata dell’oggetto di fondo del progetto europeo; realmente aperta, tutt’altro che retorica, è la domanda che ha attivato i ricercatori e chi in queste pagine si è confrontato con le loro conclusioni: il presente e il futuro del sindacato dipendono dai servizi che questo sarà in grado di offrire ai lavoratori/iscritti/utenti?
Il quesito è tutt’altro che inedito. E’ uno dei grandi temi emersi all’epoca della prima “grande trasformazione” del sindacato moderno, come definita anche da Paolo Feltrin. Quella indotta dalle riforme legislative della fine degli anni Novanta (legge Dini e pacchetto Treu) e inizio Duemila (legge Biagi, ma anche legge Moratti), anticipate, più o meno consapevolmente, dal Protocollo Giugni del 1993. Si tratta di interventi che consciamente hanno provato a correggere l’impianto regolatorio ed amministrativo costruito a misura di fabbrica e profilato sulla linearità professionale e sociale ereditato dal boom industriale e dal Sessantotto.
Già venti anni fa i servizi erano un ingrediente centrale della “ricetta sindacale”. Se è vero che l’embrione del moderno patronato fu concepito nel Decreto legislativo luogotenenziale del 23 agosto 1917, n. 450, è significativo che la legge di riferimento dell’istituto attuale sia stata approvata proprio negli anni della terza rivoluzione industriale, in contemporanea con gli interventi legislativi citati: la legge 152 è datata 30 marzo del 2001.
Il patronato non è certamente l’unico servizio (o, meglio, erogatore di servizi) riconducibile al sindacato, ma ne è di certo il più noto e rappresentativo. Un soggetto che svolge contemporaneamente un servizio pubblico convenzionato funzionale allo Stato (senza patronato la stagione pandemica sarebbe stata di ben più difficile gestione per l’INPS) e un servizio “privato” di natura associativa funzionale al sindacato (scrive Feltrin che in alcuni territori il 50% dei nuovi tesserati al sindacato è veicolato proprio da patronato e CAF); possiamo dire una sorta di miscela delle dimensioni servicing e organizing.
In questo periodo si è un poco sopita la riflessione a riguardo della crescente prevalenza dei servizi sulla rappresentanza “politica” poiché, come sempre, la lunga stagione di crisi ha comportato un riavvicinamento dei lavoratori al sindacato, inteso tanto come portatore di istanze, quanto come gestore delle vertenze (dimensione che in qualche modo è essa stessa un servizio). Personalmente ritengo ancor più pericoloso per il futuro del sindacato l’appiattimento sul contrasto alle difficoltà. Un nodo assai connesso a quello dei servizi. Davvero ci si può accontentare di un sindacato da riscoprirsi solo per la sottoscrizione di accordi collettivi di crisi e gestione di ammortizzatori sociali? Quindi, non tanto servizi e istituzionalizzazione (modello Ghent), ma specializzazione nella gestione dei fallimenti e delle riconversioni industriali? Il sindacato scandinavo è un protagonista del mercato del lavoro, soprattutto quello “attivo”, non soltanto “passivo”. In Italia il sindacato-operatore originalmente immaginato dalla legge Biagi per il tramite della bilateralità non si è mai concretizzato, se non, appunto, per la rappresentanza di interessi durante le crisi di azienda. Se la crescita dei servizi può essere letta anche come un ritorno al passato del sindacato, al mutualismo e ai servizi per i mestieri, la sua trasformazione in addetto alle politiche passive comporterebbe una modificazione genetica rilevante. Non servicing o organizing, bensì aiding. Attività certamente tipica del sindacato, ma che non può essere esclusiva.
E’ valido il ragionamento più volte esposto rispetto ai servizi: se è questo il fattore distintivo, il lavoratore avrebbe ragione di iscriversi al sindacato solo allorquando quanto da questi erogato sia di qualità superiore ai servizi offerti dai consulenti del lavoro, dalle società di consulenza, dagli avvocati, etc…
Nella pratica, però, la competizione non si svolge innanzitutto sulla qualità del servizio (pure necessaria), bensì sulla credibilità del soggetto che offre il servizio. In altri termini: quasi dieci milioni di italiani ogni anno usano gli sportelli del patronato, di assistenza fiscale, di aiuto nella ricerca del lavoro, di consulenza per lavoro domestico gestiti dal sindacato proprio perché a questo riconducibili. E’ la dimensione ideale e valoriale del sindacato che attrae le persone, anche quelle non iscritte, verso i suoi servizi, non la qualità o l’economicità di questi a determinare l’interesse per il sindacato.
E’ bene ricordare questa conseguenza, poiché permette di ricondurre a realtà il dibattito sulla distinzione tra sindacato/rappresentanza e sindacato/servizi che sovente prende una piega troppo teorica, eccessivamente schiacciata su modelli generali ed astratti. La dimensione della rappresentanza (quindi la lobby verso la politica, la partecipazione ai tavoli di concertazione, ma anche la contrattazione), la dimensione dei servizi (tanto quelli di assistenza nell’accesso a risorse pubbliche, quanto quelli di assistenza legale), così come gli ambiti ibridi (la bilateralità soprattutto, che è sia rappresentanza che servizi) sono inscindibilmente connessi, legati tra loro dal filo spesso della difesa e promozione “con giustizia” (sindacato) degli interessi dei lavoratori.
Questa dimensione non può essere dimenticata e va continuamente alimentata ed attualizzata perché si mantenga fantasiosa e sorgiva. E’ questa creatività, unitamente alla relazione continua con il mondo del lavoro, che genera servizi in grado di rispondere ai bisogni delle persone. Servizi che sono conseguenza (inevitabile) della attività sindacale strettamente intesa, non punto di partenza, “esca”, funzionale ad attrarre i lavoratori verso il sindacato. Il fatto che si possa generare questa dinamica inversa non è problematico concettualmente ed è merito della qualità del servizio offerto: è tuttavia certo che senza l’innesco ideale iniziale non vi sarebbe stato quel servizio.
Bene allora iniziare a progettare moderni “servizi collettivizzanti” o di “servicing strategico”, come definiti da Gherardini e Bellini, ma siamo certi che il fuoco ideale che li genera sia costantemente e correttamente alimentato all’interno dei sindacati?
Emmanuele Massagli – @EMassagli
Presidente ADAPT e ricercatore Università LUMSA di Roma