C’è una spada di Damocle che incombe sulla nostra economia. Ma non è il debito pubblico, né l’evasione fiscale, o il lavoro nero: problemi esistenti, certo, ma antichi e peraltro mai risolti. Il nuovo problema, quello che rischia di farci più male di tutti, ancora da molti sottostimato, si chiama demografia. La demografia è una scienza praticamente esatta: non si basa tanto sulle stime quanto sui numeri reali. Ci dice, anno dopo anno, quante persone sono nate e quante sono morte, ed è dunque in grado di proiettare sui decenni futuri quanti saremo, o non saremo. Adesso la demografia ci sta dicendo, con assoluta certezza, che il calo delle nascite sta accelerando: se nel 2022 i nuovi bambini sono stati l’1,7 per cento in meno del 2021, nel 2023 sono il 3,4 per cento in meno dell’anno precedente. Una percentuale doppia, indice di un crollo inarrestabile.
Ma attenzione, non è questo il problema. O almeno, per quanto possa sembrare strano, non è quello più urgente. Rinvigorire la natalità è uno dei temi chiave del governo Meloni, è vero, ma, ammesso e non concesso che ci riesca, se anche tutte le donne italiane si mettessero improvvisamente in maternità ci vorrebbero comunque come minimo due decenni per avere una nuova popolazione giovane. E mentre ci si scervella per capire come invertire la tendenza negativa delle nascite, si trascura che il vero problema è qui e ora: ed è la conseguenza di quanto accaduto nei decenni precedenti. Il costante decremento delle nascite, infatti, anno dopo anno ha causato un ‘’buco’’ che sta diventando una voragine. Ed è esattamente questa la spada di Damocle di cui si parlava all’inizio. Cosa c’entra con l’economia? C’entra moltissimo, e in particolare c’entra per quanto riguarda l’occupazione.
L’Italia, di fatto, sta raschiando il fondo del barile della forza lavoro. Le proiezioni dell’Istat, rielaborate dalla Confindustria, dicono che nel 2028, cioè fra quattro anni, cioè praticamente domattina, nel nostro paese mancheranno la bellezza di un milione 300 mila persone in età da lavoro. Pur se si riuscisse a spingere sul mercato del lavoro tutte quelle forze che ancora latitano, e cioè giovani, Neet, donne, il buco si ridurrebbe al massimo della metà. Resterebbe sempre una mancanza quantificata dall’ultimo Rapporto del centro studi Confindustria pari a circa 6-700 mila persone. Che l’associazione degli industriali chiede vengano prese dove ci sono, ovvero oltre i famosi “sacri confini’’ (cit. Salvini) del nostro paese, aumentando i flussi annuali dell’immigrazione.
Ma intanto che si combatte la guerra delle culle, o quella degli immigrati, sarebbe interessante interrogarsi su cosa significherà per un paese come l’Italia, che ha sempre avuto un problema di disoccupazione, scoprire di avere improvvisamente il problema opposto. La carenza di mano d’opera causa cambiamenti drastici nell’economia. Ne sa qualcosa la Cina, che non potrà raggiungere quest’anno il suo target di Pil proprio a causa della denatalità. Ne sa qualcosa il Giappone, che da tempo ha dovuto riconvertire la sua economia piegandola alla realtà di un paese di vecchi: il mercato immobiliare, per esempio, è crollato. Ne sa qualcosa, per contro, anche l’India, che deve la crescita economica proprio alla forza della sua demografia. Mentre l’Italia, che già quest’anno non acchiapperà quell’1% di Pil sperato dal governo, senza mano d’opera sufficiente nei prossimi anni potrà scordarsi di ottenere una crescita degna di questo nome.
Ma la carenza di mano d’opera cambia anche i rapporti di forza tra il lavoro e il capitale, come si sarebbe detto un tempo, o più semplicemente tra i lavoratori e le aziende: queste ultime, non a caso, sempre più impegnate a elaborare piani di sviluppo che abbiano al centro ‘’la persona’’. Non un modo di dire, ma una concreta necessità per attrarre forze lavoro, possibilmente qualificate, e soprattutto per tenersele. Non a caso la Confindustria insiste non solo sul raddoppio delle quote annuali per gli immigrati, ma anche sul “piano casa’’, cioè alloggi con affitti calmierati che le aziende potrebbero offrire come bonus ai dipendenti che accettino di trasferirsi da una località all’altra. Né è un caso se grandi multinazionali (per esempio la Danone, ma non solo) fanno della ‘’felicità’’ dei dipendenti un imperativo categorico che passa non solo per salario e orario, ma anche per tutta una serie di supporti ideati per facilitare la vita “fuori” dal lavoro. O se tutti i capi del personale delle principali imprese, di quelle, ovviamente, che hanno la vista lunga e capiscono la direzione del vento, si arrovellano per venire incontro alle esigenze della forza lavoro.
Ma se i numeri sono quelli che abbiamo detto, nemmeno coprendoli d’oro si potranno attrarre i lavoratori che non ci sono. E quindi ci saranno attività costrette a chiudere, o a trasferirsi altrove, dove i giovani ci sono e la forza lavoro abbonda, con ripercussioni negative sull’economia nazionale. E come in un classico comma 22, sempre più giovani, dei pochi rimasti, lasceranno l’Italia verso paesi più accoglienti. Sono già oltre mezzo milione i ragazzi italiani che negli ultimi dieci anni hanno varcato i ‘’sacri confini” per non tornare più.
Insomma, a leggerli in controluce, i dati dell’Istat, cosi come quelli della Banca d’Italia, o dell’Ocse, disegnano un futuro del lavoro che potrebbe essere molto diverso da come lo si immaginava fino a qualche anno fa. Su questo varrebbe la pena di concentrarsi e di ragionare, e un po’ stupisce che non siano i sindacati, ma la Confindustria, a studiare le possibili implicazioni di una Italia senza lavoratori, prima ancora che senza lavoro.
Nunzia Penelope