Dice sorridendo Giorgio Squinzi: “Ha vinto la democrazia”. Dice invece, nerissimo, Luca di Montezemolo: ‘’E’ un’occasione persa’’. Sogghigna Marco Bonometti: ‘’Vi avevo avvertito che Confindustria si sarebbe spaccata’’. E’ giovedì 31 marzo, non e’ passata nemmeno un’ora dall’elezione di Vincenzo Boccia alla presidenza dell’associazione, ma gia’ volano i primi pugnali. Soddisfazione e rosicamento si intrecciano nei primi commenti sull’esito di un voto che ha visto prevalere il salernitano, ex presidente della Piccola Industria, con appena nove voti di vantaggio sul bolognese Alberto Vacchi, campione della Grande Industria del Nord. Davide contro Golia, considerando l’enorme spiegamento di forze a favore di Vacchi, con in testa la potentissima Assolombarda di Gianfelice Rocca, e dietro, allineate, alcune delle principali territoriali di Confindustria. Uno schieramento di forze poderoso, che ancora non si capacita di come sia stato possibile perdere una battaglia che sembrava vinta in partenza. E però, settimana dopo settimana, Vincenzo Boccia ha invece recuperato terreno, rosicchiato consensi a Vacchi, soprattutto dopo che dalla gara erano usciti sia Aurelio Regina sia Marco Bonometti.
Si dice che a sfavore di Vacchi abbiano giocato diversi elementi. Il primo, la scarsa frequentazione degli appuntamenti associativi: da anni presidente di Confindustria Bologna, a Roma si e’ visto poco e niente, e non ha mai preso la parola in alcun dibattito interno. Di qui, la critica mossa da diversi imprenditori: ‘’non lo conosciamo, non sappiamo cosa pensa, che fara’’. Proprio questo, in teoria, avrebbe dovuto essere il suo punto di forza: alfiere della ‘discontinuità rispetto alla continuità rappresentata da Boccia, che in Confindustria ha passato buona parte dei suoi 52 anni, prima da Giovane Industriale, poi da presidente della Piccola, infine come responsabile del Comitato Credito. Ma l’associazione ha preferito ‘’’usato sicuro’’ al rinnovamento. Altro handicap che ha appesantito le ali di Vacchi si dice sia rappresentato da alcuni endorsement poco apprezzati dalle parti di viale dell’Astronomia, come quello di Romano Prodi e, soprattutto, della Fiom. Quest’ultima, per la verità, ha negato una preferenza per l’uno o l’altro candidato, ma tant’e’: la pulce nell’orecchio agli industriali e’ rimasta. Tanto più che proprio la riforma dei contratti sarà il primo banco di prova del nuovo presidente Boccia, non appena si sara’ insediato ufficialmente, e cioè dopo il 25 maggio. Nel frattempo, e’ possibile che resti al palo anche il contratto dei metalmeccanici, peraltro fermo da tempo. Boccia, così come Vacchi, ha affermato che il modello da seguire per realizzare la riforma e’ quello ormai definito da Federmeccanica. E proprio un esponente della categoria numero uno di Confindustria sembra destinato a far parte della squadra del nuovo leader degli industriali. E tuttavia, sarebbe il caso di chiedersi quanto sia di successo questo ormai famoso ‘’modello’’, che fin qui ha ottenuto, come massimo risultato, la reunion di Fiom, Fim e Uilm dopo un lunghissimo periodo di contrasti, con tanto di sciopero della categoria già programmato per aprile, il primo unitario dopo otto anni.
Da parte sua, Boccia ha dedicato al tema relazioni industriali alcuni passaggi del suo programma di presentazione, illustrato al consiglio generale (la ex Giunta) ai primi di marzo. “L’Italia si è a lungo caratterizzata per il divario più largo e persistente tra salari e produttività del lavoro, che addirittura è peggiorato negli anni della crisi –si legge nel testo- Con il Jobs Act il governo ha aperto la strada al superamento del mercato del lavoro rigido e dualistico. Spetta a noi ora la grande responsabilità di completare la riforma con un assetto di relazioni industriali adeguato alle sfide competitive che abbiamo di fronte”. E ancora: “Lo spostamento della contrattazione richiede di dare piena attuazione agli accordi che abbiamo firmato il 28 giugno 2011 e il 31 maggio 2013, coerenti con tale percorso. Su questo voglio però dire una cosa chiara: la questione contrattuale e della rappresentanza appartiene alle forze sociali. A noi il diritto e la responsabilità di affrontarla in modo ambizioso. Al Governo il dovere di porre in essere le condizioni affinché imprese e lavoratori possano fare fronte alla sfida del recupero di produttività. In altre parole, non vogliamo regole imposte dall’esterno, ma una politica fiscale di detassazione e decontribuzione del salario di produttività strutturale negli anni, che, senza tetti di salario e di premio, incentivi modelli virtuosi”.
Lo stesso Boccia, nella sua azienda (Arti Grafiche Boccia, 160 dipendenti, 40 milioni circa di fatturato, di cui un terzo all’estero, sede principale a Salerno ma presente anche in mezza Europa e perfino in Libano) ha già applicato accordi di questo genere, con molta attenzione anche al welfare aziendale, strumento sempre più di moda. Ora però si tratta di fare un salto di qualità, e portare il tutto a livello nazionale. Avrà Boccia la forza e il potere per farlo? Chi lo conosce bene lo definisce persona con forte attitudine al dialogo, più che allo scontro; ma nello stesso tempo, con un’altrettanta forte determinazione a raggiungere gli obiettivi. La costanza, oltre che dal segno zodiacale Capricorno, gli arriva soprattutto dall’esperienza nell’azienda, che ha dovuto affrontare crisi varie, tra cui quella, recente, del febbraio 2014, che ha comportato un ridimensionamento di personale di circa 50 unità. La Agb e’ riuscita comunque a riemergere dalle difficoltà, tanto che nel 2015 e’ stata selezionata tra le imprese per l’Expo, forte anche di un messaggio di congratulazioni da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che peraltro seguiva un analogo messaggio di qualche anno prima, firmato da Giorgio Napolitano.
Quanto alla piccola dimensione di imprenditore del futuro presidente Boccia, non dovrebbe essere un problema, per almeno tre motivi. Il primo: la Confindustria ha gia’ avuto come leader altri due ‘’piccoli’’, e cioè Luigi Abete e Giorgio Fossa. Il primo, tra l’altro, eletto nella primavera del 1992, ovvero in pieno scoppio di Tangentopoli, seppe tener fermissima la barra dell’associazione sia nel caos seguito agli arresti pressoché quotidiani di numerosi esponenti del Direttivo confindustriale, sia, successivamente, quando un esponente dello stesso Direttivo, tal Silvio Berlusconi, decise di candidarsi in politica pretendendo, o cercando di pretendere, l’appoggio dell’associazione. Il secondo motivo e’ che la Confindustria e’ fatta in massima parte di piccole e medie imprese, il 90% almeno delle 150 mila associate; dunque, non si vede per quale motivo un ‘’piccolo’’ non dovrebbe essere in grado di rappresentarle degnamente. Inoltre, e questo e’ il terzo motivo, di ‘’grandi imprenditori’’ in Confindustria non ce ne sono più, come peraltro non se ne vedono molti nel paese. I grandi nomi sono usciti di scena, talvolta per estinzione personale, e talvolta per quella delle loro aziende: come nel caso della Pirelli, di cui Marco Tronchetti Provera ha ormai ceduto tutto a investitori cinesi, o come nel caso di Fiat, ormai ribattezzata Fca, con sede nel Regno Unito, in Olanda e negli Usa, mentre in Italia restano le sparute vestigia di quel che fu Mirafiori. E dunque, per dire, quale ‘’grande industriale’’ dovrebbe sentirsi diminuito nel proprio ruolo, confrontandosi con un Boccia Enzo da Salerno, la cui azienda, pur piccola, e’ se non altro libera da pericolosi debiti con le banche e da discutibili commesse pubbliche?
Nunzia Penelope