di Carlo Dell’Aringa – Economista del lavoro
L’intervista a Pirani ha toccato un problema importante.
Le relazioni sindacali hanno bisogno di cambiare perché è cambiato il contesto in cui esse operano. Se questo non succede, i sindacati sono destinati a perdere progressivamente capacità di rappresentanza e rilevanza nei rapporti di lavoro. Sono d’accordo che occorre concentrarsi sui problemi concreti più che sulle grandi questioni e visioni di fondo (sempre pervase da venature di carattere ideologico).
Innanzitutto va detto che questi problemi – e questo vale per il nostro Paese e in parte anche per gli altri dell’Europa continentale – esistevano già prima della crisi. La crisi li sta solo aggravando.
Una cosa va ricordata , a questo proposito: la crisi ha origine nei paesi di tradizione anglosassone, U.S.A. in testa , e non nei Paesi Europei. Questi l’hanno subita, non l’hanno causata. Ed è vero quanto si dice da più parti e cioè che il modello di sviluppo che ha caratterizzato l’economia americana e inglese ha mostrato crepe vistose. E questo è dovuto al prevalere in questo ultimo periodo della ideologia dello “stato minimo” e ad una fiducia eccessiva nella forza del mercato. Si è così creata l’enorme bolla speculativa, accompagnata da un aumento delle diseguaglianze sociali. Passata la crisi, USA e Gran Bretagna non saranno più come prima. Anche loro dovranno riconoscere che occorre più e migliore regolazione dei mercati e un più equo stato sociale.
In Europa abbiamo subito i danni e .. qualche beffa. Abbiamo lamentato in questi anni le distanze che ci separavano dallo sviluppo continuo e sostenuto degli Stati Uniti. Le distanze c’erano, ma i loro successi sono stati pagati a caro prezzo. Da parte nostra, si dovevano apprezzare maggiormente alcuni aspetti importanti del modello sociale europeo. Il quale continua a presentare difetti importanti, ma “ex post”, si lascia apprezzare per alcune qualità che in questi ultimi anni non erano state abbastanza riconosciute.
Abbiamo forse esaltato troppo il modello americano. Peraltro lo abbiamo fatto più a parole che non coi fatti. Non lo abbiamo certo imitato. Non in Europa e, tantomeno, in Italia. Forse è per questo che la crisi è meno forte da noi.
Come ho detto, i problemi esistevano già .Due in particolare (almeno nel nostro Paese): una elevata diseguaglianza dei redditi e una scarsissima produttività dei fattori produttivi.
Vanno fatte, però, a questo proposito, importanti precisazioni. La prima: la disuguaglianza dei redditi e dei salari è aumentata moltissimo, in questi ultimi venti anni, nei Paesi anglosassoni. Ma non così tanto in Europa, e ancor meno in Italia. Siamo certamente il Paese più “diseguale”, dopo USA e Gran Bretagna, ma non c’è stato un peggioramento in questi ultimi 15 anni. Per quanto riguarda i salari va rilevato quanto segue: 1. la quota del reddito da lavoro è peggiorata prima degli anni ’80, poi si è stabilizzata. E’ persino un po’ aumentata negli ultimi anni . 2. non è aumentata la diseguaglianza dei salari ; nel complesso è diminuita in questi ultimi 15 anni; 3. i salari reali sono aumentati poco per il semplice motivo che la produttività è aumentata poco.
Questi fatti sono importanti per capire natura e origine dei nostri maggiori problemi.
Innanzitutto una diseguaglianza dei redditi di lunga data che il nostro sistema di Welfare (a differenza di quanto succeda in altri Paesi europei) non é riuscito a correggere. In secondo luogo una scarsa crescita della produttività che tiene il potere d’acquisto delle buste paga nette fermo da oltre un decennio.
Redditi fermi e disuguali : questi sono i problemi che ci trasciniamo da decenni e che non hanno niente a che fare con la crisi o con l’ideologia del modello americano di questi ultimi 15 anni.
Il fatto che siamo aumentati i lavori cosiddetti atipici non è , secondo me, un problema . La flessibilità presenta certo rischi, ma il bilancio finale, in termini di occupazione, è positivo. Non si può poi attribuire alla flessibilità la caduta del trend di crescita della produttività. Questa caduta del trend dipende dal mancato processo di innovazione che ha caratterizzato la maggioranza delle nostre imprese, che si è sviluppata poco sia nel campo dell’organizzazione, che della tecnologia, che della qualità del prodotto. E’ su questi fattori che occorre intervenire e non sulla flessibilità del lavoro.
Occorre intervenire anche sul Welfare. La sua riforma è in agenda da almeno un decennio. Si dice che il ritardo sia dovuto alla mancanza di risorse, ma personalmente non credo che si tratti solo di questo. Non é solo questione di debito e deficit pubblico. Vi sono altri deficit altrettanto, se non più importanti che si frappongono alla riforma del welfare. Soprattutto se si vuole che la riforma sia nella direzione auspicata , quella cioè di un “universalismo selettivo” dove le prestazioni sono condizionate a situazioni di effettivo bisogno e condizionate a comportamenti responsabili da parte degli assistiti che devono impegnarsi a non cadere in situazioni di bisogno o, una volta caduti, a uscirne velocemente. Per realizzare tutto questo occorre una amministrazione pubblica che funzioni, un elevato senso civico della popolazione, un controllo sociale adeguato. Se non si realizzano queste condizioni, l’universalismo selettivo e condizionato non può essere messo in pratica e qualsiasi riforma del welfare va incontro a gravi problemi sia di efficienza che di equità.
D’altra parte i nostri “deficit” nel campo della efficienza della P.A., del senso civico e del controllo sociale sono ben noti e si può solo stendere un velo pietoso sulle nostre mancanze. Che non devono essere prese come condanne definitive. Si può reagire a tutto questo, come si può reagire alla diffusione del lavoro sommerso, della evasione fiscale e del frequente mancato rispetto delle norme , che caratterizza da sempre la vita del nostro Paese. Bisogna rimboccarsi le maniche e lo deve fare anche il sindacato, se si vuole porre rimedio al problema della diseguaglianza, un problema che pesa sulla credibilità dello stesso sistema di relazioni sindacali. Gli attori delle relazioni sindacali devono impegnarsi per un welfare universale, il quale, ancorchè selettivo, non può più essere categoriale e corporativo come lo è stato sinora in importanti settori, come quello degli ammortizzatori sociali. Questo non significa che le parti sociali devono ritirarsi dal sistema di Welfare. Tutt’altro. Il sistema pubblico deve avvalersi di tutti gli strumenti della sussidiarietà verticale e orizzontale che possono essere attivati. Le parti sociali possono e devono svolgere un ruolo attivo, proprio per dare il loro contributo a realizzare quelle condizioni di “selettività e di attivazione” che sono alle basi di un moderno sistema di welfare. Per questo va sviluppata la bilateralità. Questo strumento va usato in aggiunta e a sostegno del ruolo dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali. Per avere maggiore e più convinta partecipazione dei lavoratori-cittadini, per aumentare il senso del bene pubblico, per debellare forme di opportunismo e di evasione. Il sindacato non può più tirarsi fuori da questo impegno.
Come non può tirarsi fuori dall’impegno di rendere le nostre aziende più produttive e più competitive. E’ vero che i redditi (soprattutto quelli familiari) devono essere resi meno disuguali attraverso un più equo ed incisivo sistema di welfare, ma occorre anche che questi redditi aumentino e che diano prospettive di vita migliore ai lavoratori e alle famiglie.
E veniamo così al principale problema della nostra economia. Il processo di innovazione ha interessato un numero troppo limitato di imprese; esso deve essere esteso ad una quota maggiore del nostro apparato produttivo. Gli interventi da fare sono numerosi e complessi e questa non è certo la sede per affrontarli. Ma è indubbio che il sistema di relazioni industriali può fare la sua parte. Innanzitutto sviluppandosi in senso più partecipativo e collaborativo e meno antagonistico di quanto non sia successo in questi ultimi anni. In secondo luogo attraverso un decentramento della contrattazione che, senza togliere nulla al ruolo di coordinamento dei livelli nazionali della contrattazione collettiva, sposti maggiormente nelle aziende lo scambio virtuoso tra più produttività e migliori condizioni di lavoro. E’ quanto hanno fatto le parti sociali in quei Paesi nordici che vengono sempre presi a modello quando si parla di coesione sociale e di capacità di innovazione dei processi e dei prodotti.
Questo è il motivo per cui il recente accordo tra Confindustria e Cisl e Uil va nella giusta direzione. Si poteva fare certamente di più e di meglio nel senso di un maggior decentramento della contrattazione (pur mantenendo un ruolo di coordinamento “organizzato” forte da parte del contratto nazionale), ma questo non è stato possibile per le stesse divisioni all’interno del sindacato. Queste divisioni non hanno fatto altro che confermare l’idea che una buona parte degli imprenditori hanno del sindacato italiano: troppo ideologico ed antagonista per potersi fidare di attribuire un ruolo importante alla contrattazione aziendale. Questo il motivo per cui il recente accordo, pur andando nella direzione giusta, non ha fatto quel balzo che sarebbe necessario verso l’assunzione di maggiori responsabilità delle parti sociali a livello aziendale.
Si spera comunque che il contributo del recente accordo alla crescita della produttività del nostro paese sia importante. Ma l’occasione che si era presentata è stata sfruttata solo in parte.