di Massimo Mascini
Sembra essere già finito l’indirizzo virtuoso preso dal dialogo tra le parti sociali nei mesi scorsi. A settembre al convegno ai Magazzini del cotone di Genova Confindustria impresse una decisa sterzata ai rapporti con il mondo del lavoro. Dopo più di un anno e mezzo di dissidio con la Cgil Emma Marcegaglia manifestò l’intenzione di cambiare passo. Chiamò tutto il sindacato, compreso la Cgil, a un tavolo di negoziato per stabilire i principi cardine di una politica per la ripresa economica e il recupero di produttività e disse chiaramente che in questo dialogo sarebbe stato ripreso anche il discorso sulla struttura contrattuale. Alberto Bombassei parlò di una sorta di “tagliando” dell’accordo del 2009, facendo intendere che si sarebbero potute stabilire nuove regole, condivise da tutti.
Una mano aperta, alla quale la Cgil rispose con parallela apertura, partecipando a tutti gli incontri con una decisa e manifesta volontà di arrivare ad accordi. Una posizione esplicita che corrispondeva pienamente alla decisione espressa da tutta la confederazione, tanto più in occasione del passaggio di consegne tra Guglielmo Epifani e Susanna Camusso, di riportare la confederazione al centro del dibattito e dell’azione per restituire competitività al nostro paese, mettendo fine a una situazione che vedeva la Cgil esclusa dai giochi.
I primi accordi sembrarono dare ragione a quanti avevano caldeggiato questa inversione di corrente. I temi sui quali si raggiunsero alcune intese non erano certo fondamentali, ma sicuramente manifestavano la volontà di andare avanti in questa strada. Poi, tutto è sembrato arenarsi. I colloqui, su temi che tutti indicano come fondamentali per la ripresa economica, primo tra tutti quello sulla competitività, si sono arenati. Non bloccati, ma le riunioni hanno cominciato ad assumere ritmi sempre più blandi, i discorsi a diventare più vaghi, è scomparso quel piglio che può portare in beve agli accordi. Un andamento che stride con le volontà espresse in precedenza, tanto più in quanto si tratta di argomenti ben noti, già sviscerati tra le parti sociali, per cui si sarebbe potuto avere ben altro approdo.
Non è decollato nemmeno il dialogo interno al sindacato sui temi della rappresentanza, anche questo apparentemente molto facile considerando che esisteva un precedente accordo, quello del 2008, al quale tutti si richiamavano e nel quale tutti sembravano trovarsi. Una proposta della Cgil, invero sotto forma di bozza di lavoro, quindi pienamente emendabile, più punto di partenza che di arrivo, è stata scartata in quanto irricevibile dalle altre confederazioni. E non se ne è più parlato.
Non metto in questo elenco l’accordo separato per il pubblico impiego che ha caratteristiche tutte diverse, anche se certamente è indicativo di una certa diffusa indisponibilità al dialogo, al di là delle precedenti affermazioni. Ma i segnali di rigidità si stanno susseguendo, mostrando un panorama certamente più da scontro che da incontro.
E forse non è un caso che i superstiti di “La Cgil che vogliamo”, la minoranza interna alla Cgil, hanno fatto sentire la loro voce proprio in questi giorni chiedendo una riunione del direttivo della confederazione nel corso della quale esaminare la situazione e, soprattutto, decidere lo sciopero generale. Non si tratta, è facile capirlo, di una richiesta a caso, perché il segretario generale ha fatto capire molto chiaramente di non avere alcuna voglia di proclamare uno sciopero generale in questa situazione; tuttavia, la corrente di minoranza insiste, perché una fermata generale significherebbe l’abbandono totale di ogni politica dialogante a favore dello scontro politico. Sconfitti senza possibilità di recupero al congresso, dove non raccolsero che il 18% dei voti, i generali e i colonnelli della minoranza ricominciano adesso la loro battaglia per avere un sindacato politico, che in quanto tale fa solo battaglie politiche. La stessa minoranza che ha vissuto come una vittoria la doppia sconfitta alla Fiat, senza rendersi conto, e forse nemmeno chiedersi, quale fosse la reale volontà dei lavoratori.
Questa è la situazione attuale, con il dialogo interconfederale fermo, mentre le liti e lo scambio di accuse sono ripresi vigorosi, un’intesa generale si fa sempre più lontana, la possibilità di una vera partnership una chimera. Resterebbe da capire a chi giova questa situazione e perché nessuno fa qualcosa per invertire davvero il corso degli avvenimenti.