In guerra, dopo le persone sempre più vittime civili innocenti, a essere uccisa è anche la ricerca verità. E questo è quello che sta accadendo anche nel nuovo conflitto tra Israele e Hamas. E’ questa l’analisi di Adriano Fabris, professore di filosofia morale all’università di Pisa. Si è perso il gusto per la ricerca della verità. Il dibattito è incentrato sullo scontro tra i due contendenti e non sull’analisi dei fatti. Anche la comunicazione è diventata un’arma altrettanto letale.
Professor Fabris si è nuovamente riaccesa la polveriera del Medio Oriente. Ma non è l’unico scontro in atto. Che fase stiamo vivendo?
Stiamo vivendo una guerra globale frammentata. Sono riesplosi conflitti anche in zone che hanno goduto di lunghi periodi di pace, come in Europa con l’Ucraina. Si sono riaccese le ostilità in Palestina, ed è in corso il terzo conflitto tra Armenia e Azerbaijan. Ci sono poi tutti gli sviluppi politici da monitorare in America Latina. Tutte queste situazioni sono interconnesse tra loro. Queste guerre portano sul fronte tutti, non facendo più distinzione tra militari e civili. Una piega che si ritrova nella storia da Guernica in poi, molto più accentuata rispetto al passato anche per lo sviluppo tecnologico degli armamenti. E questo fa venir meno tutti i criteri sui quali si basa anche l’Onu per le sue risoluzioni. Criteri che oggi non sono più sufficienti.
Che ruolo sta avendo la comunicazione nella contrapposizione tra Israele e Hamas?
Non solo la guerra è globalizzata, ma lo è anche la comunicazione, che è diventata un’arma, non meno letale delle altre, capace di mobilitare l’opinione pubblica sulla base delle emozioni e del momento. Quello che noto è che abbiamo perso il gusto per la verità. Non c’è tempo e voglia per approfondire le cose. Nell’informazione c’è ormai una sovrapposizione tra fatti e opinioni, che non dovrebbe esserci, così come non si dovrebbero confondersi informazione e propaganda. Tutto questo dipende da una mentalità che si è imposta, spinta anche dalle piattaforme, che alla fine si traduce in un “mi piace o non mi piace”, che però non analizza le ragioni del perché si aderisce a un certo convincimento, a una certa narrazione, né, tanto meno, indaga le motivazione della posizione altrui.
Ma oggi è possibile risalire ancora alla verità dei fatti? E’ possibile stabilire la verità di ciò che è successo all’ospedale di Gaza City?
Siamo davanti a un crimine orrendo, che ha causato il massacro di innocenti. E’ doveroso fare un certo tipo di approfondimento, che potrebbe essere non risolutivo, per cercare di arrivare alla verità. E se dovessimo arrivarci, sarebbe già una verità storica, più lontana nel tempo e forse anche più fredda. Quello che per ora abbiamo è solo una feroce polarizzazione. Da un lato persone scese in piazza, come in Giordania ed Egitto, dall’altro Biden che, sulla base delle sue informazioni, si dice sicuro che la responsabilità non sia di Israele. E’ un discorso che non guarda alle cose, ma è incentrato sui contendenti, dove il più forte prevale e il più debole cova nel rancore.
Servirebbe un ente terzo, autonomo e non schierato.
Oggi molta comunicazione si basa sulle immagini più su che le parole, che forse spingerebbero verso una maggiore analisi. Molti centri indipendenti di debunking stanno dicendo che non tutte le foto mostrate dal premier israeliano Netanyahu al segretario di stato americano Blinken riguardano il massacro compiuto da Hamas, così come i video dei bombardamenti diffusi da Hamas stessa non si riferiscono alle attuali operazioni di Israele. Per trovare la verità sotto il velo della propaganda servirebbe un’autorità indipendente. Compito che l’Onu in questo momento non sembra in grado di espletare. Così come va riattivata una vera diplomazia, capace di mediare le varie posizioni in campo e spingerle a delle rinunce per arrivare a un compromesso. Pur con tutti i limiti, quando gli Stati Uniti erano il poliziotto del mondo esisteva un preciso equilibrio mondiale. Oggi questo equilibrio è venuto meno, e ci sono più centri che esercitano il proprio potere di attrazione.
Molti commentatori e analisti leggono la reazione di Israele improntata sulla vendetta e l’ira, dopo la brutale carneficina di Hamas. Insomma le emozioni sembrano non addirsi alla politica, ma allo stesso tempo neanche la semplice razionalità, messa in campo da quelli che sono stati nominati “i freddi burocrati di Bruxelles”, ovviamente per altri temi, non sembra servire a qualcosa.
Se la razionalità è quella espressa dai “freddi burocrati di Bruxelles”, come sono stati definiti, non andiamo da nessuna parte perché si tratta di una ragione schiava della procedura, che non usa l’intelletto e l’ingegno per applicare le regole. Le affermazioni della presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, sul fatto che i migranti che minacciano la sicurezza debbano essere espulsi lasciano sgomenti. Verrebbe da chiedersi dove fosse stata fino a questo momento Von der Leyen. L’esercizio di questo tipo di razionalità è totalmente disancorato dalla realtà. Allo stesso tempo l’uso di certe immagini per comunicare generano una distorsione dell’empatia. Fanno leva sulle emozioni, che sono un qualcosa di momentaneo e di transitorio, ma non aiutano a comprendere in profondità le cose.
Si ritorna a parlare uno scontro di civiltà. L’occidente, se esiste ancora un’idea di occidente, come può venire fuori da queste crisi?
Prima di tutto l’occidente è un’espressione molto ampia e vaga, che tiene dentro aspetti e stili di vita che oggi hanno una valenza globale. Dobbiamo chiederci, nel bene e nel male, che cosa di “importante” abbia prodotto l’occidente. E la risposta è la capacità di ragionare e pensare universalmente. Per capirci i diritti sono un bene universale e non limitati a questa o a quella singola persona. Ci sono intellettuali e correnti di pensiero che, in parte anche giustamente, si sono opposte a questo approccio quando si è tradotto nell’imposizione di un certo modello di vita. Ma se in modo enfatico vogliamo dire che l’occidente ha una missione, anche per rimediare ai torti del passato, è proprio questa: ossia farsi carico di un discorso che non imponga contenuti specifici, ma che guardi alla nostra comune e universale umanità, sempre nel rispetto delle differenze. Del resto è questo l’humus della filosofia. Il fenomeno migratorio, se gestito sapientemente, potrebbe essere un ottimo terreno di prova. Ma la strada che si intraprende è solo quella della ghettizzazione.
Ci sono specifici sentimenti culturali e religiosi che fanno da molla al conflitto, o è solo una questione di atteggiamento e interpretazione?
Il problema è la radicalizzazione e il fondamentalismo di certi atteggiamenti. Questi si ritrovano nella destra israeliana, che ha mandato coloni allo sbando in terre non sue e che poi chiede l’intervento dell’esercito, così come nel fondamentalismo sciita che vuole solo la distruzione del nemico. Una deriva che si ritrova a tutte le latitudini. C’è un fondamentalismo buddista, e c’è anche un fondamentalismo laico. Il problema non sono i contenuti religiosi e culturali, ma come questi vengono letti e interpretati.
Tommaso Nutarelli