Chissà quanti commercialisti, quest’anno, hanno dovuto rinunciare alle vacanze. Scatta a fine ottobre, infatti, la novità del concordato preventivo fra fisco e contribuente. Non tutti i contribuenti. Venti milioni di dipendenti e pensionati le tasse le pagano già, e tutte, visto che vengono prelevate alla fonte. Il problema sono i cinque milioni di lavoratori autonomi (professionisti, artigiani, commercianti) che, in due casi su tre, dicono le statistiche ufficiali, nascondono allo Stato quanto effettivamente guadagnano.
L’effetto sul paese di questa evasione di massa è devastante. Si calcola che all’appello, all’erario, vengono a mancare ogni anno oltre 80 miliardi di euro – in pratica più di un euro ogni dieci di entrate tributarie – che il fisco avrebbe invece ragione, sulla base dell’andamento dell’economia, di aspettarsi da questi contribuenti. Con quei soldi, si potrebbe finanziare tutta la scuola. Oppure risolvere, per due terzi, la crisi della sanità. O anche pagare tutti gli interessi sul nostro gigantesco debito pubblico. Saremmo, insomma, un paese diverso.
Alla radice di questa zavorra che impedisce all’Italia di marciare al passo con gli altri, c’è una carenza di controlli. Nelle dieci attività più diffuse, solo poco più del 3 per cento delle partite Iva subisce un controllo. Ma, per il salumiere all’angolo siamo all’1,5 per cento. Per lo studio privato del medico all’1,8 per cento, come per l’agenzia immobiliare che vi ha affittato casa. Insomma, davvero, bisogna pescare l’asso di picche.
La conseguenza è che il fisco intuisce che questi contribuenti evadono. Il 73 per cento delle dichiarazioni dei ristoranti – dicono i documenti ufficiali – vengono ritenute “inaffidabili”. Stessa storia per lavanderie e noleggi auto, per il 70 per cento dei panettieri, il 68 per cento dei bar. Ma lo stesso fisco, mancando il riscontro dei controlli, non è in grado di dire chi, specificamente, evade, dove e quanto, sanzionarlo e convincerlo che è meglio essere un contribuente onesto. Di fatto, si muove nella nebbia.
In questa nebbia, a fine ottobre arriveranno negli uffici fiscali milioni di proposte di concordato, che i funzionari avrebbero ragione di ritenere dubbie. Il nuovo sistema si basa, infatti, sul presupposto, caro alla destra di governo, che l’Italia sia un paese di evasori sì, ma riluttanti (riluttanti all’evasione, cioè) e ansiosi, invece, di mettersi in regola, nonostante sperimentino, da sempre, un fisco con le armi spuntate. Il concordato preventivo, infatti, consente di proporre al fisco un ammontare di reddito percepito l’anno precedente, Se gli uffici ritengono quell’ammontare verosimile, la dichiarazione viene accettata e il contribuente è al riparo da controlli.
Le critiche alla riforma sono numerose, ma il punto chiave è quel concetto di reddito verosimile. Perché sarà difficile, per gli uffici, discostarsi in misura apprezzabile dalla realtà storica delle dichiarazioni del settore. Ovvero, dalla media dei redditi dichiarati dai contribuenti di quel settore nel passato. Qualcuno dovrà pagare un po’ di più del solito, il grosso se la caverà, invece, ricevendo una generale assoluzione, ma pagando assai meno di quanto dovrebbero, perché, in massa, hanno sempre pagato meno di quanto dovevano. Quelle medie di reddito sono, infatti, quasi sempre, risibili: se ne deduce che professionisti, artigiani, commercianti, quasi in blocco, vivono sull’orlo del sussidio di povertà. Il rischio del concordato è di scolpire nella pietra il proprio diritto all’evasione.
Guardiamo ai dati di due categorie cui il governo dimostra un occhio di riguardo. Cominciamo dalle concessioni demaniali, uno scandalo per cui i gestori degli stabilimenti si impadroniscono di una spiaggia versando allo Stato poco più di un euro ogni 100 di fatturato. I 400 stabilimenti di Rimini – non propriamente spiagge remote – pagano legalmente tutti insieme, di concessione, poco più di 3 milioni di euro, più o meno 7 mila euro a testa. Ma gli incassi? Quanto dichiarano di reddito al fisco le singole aziende balneari in tutta Italia? I 1.500 concessionari strutturati come società di capitali – non quindi l’ex pescatore che si è improvvisato balneare e lavora con moglie e figli – dichiarano, secondo i dati Infocamere, un utile medio, una volta pagate le tasse, di 10.126 euro l’anno. Insomma, questi concessionari si sono dati la pena di costituirsi in società di capitali (bilanci certificati, iscrizioni alle Camere di commercio ecc.) per guadagnare 3 mila euro al mese – per 100 ombrelloni vuol dire 1 (uno) euro al giorno per tutto agosto – nei tre mesi di stagione balneare. E, però, uno stabilimento balneare, in Liguria o in Romagna, si vende a 6-700 mila euro. Anche ipotizzando un guadagno due-tre volte sopra la media, vista la zona, in quanto tempo, con questi incassi, si recupera quel prezzo?
Il concordato preventivo consente di evitare controlli per due anni e di sancire a futura memoria (del fisco) redditi come questi. Lo stesso vale per un’altra categoria di beniamini del governo: i tassisti. Sul libero mercato una licenza si vende anche a 350 mila euro. Anche quelle messe a bando dal Comune, ad esempio, a Roma, costano 93 mila euro. Come fare ad ammortizzare quei 93 mila euro, guadagnandone mille? Destinando per otto anni il proprio reddito tutto intero a pagare la licenza? A Roma, infatti, un tassista dichiara, in media, un reddito annuo di 12.729 euro. Un po’ di più a Milano: 19.580 euro. In un mondo in cui tassametro e ricevute non hanno valore fiscale, tutto è possibile.
Non va meglio per quei disperati che tengono un ristorante. In media, guadagnano appena più di 15 mila euro. A Milano 29 mila, a Firenze 21 mila. A Roma, nel 2022, meno di mille euro al mese: 11.847 euro in media. Ci crederà a ottobre il fisco?
Maurizio Ricci