A che punto siamo? Sono almeno quindici anni che sento dire che bisogna coinvolgere i giovani nel sindacato. Lo sentivo dire quando avevo 25 anni. Lo sento dire oggi che ne ho 40. Eppure, le domande sembrano sempre le stesse: come si fa a coinvolgere i giovani? Perché non si avvicinano? Serve un linguaggio nuovo? Bisogna usare i social? Adottiamo le quote generazionali? Sono domande comprensibili, che tornano ciclicamente. Forse però vale la pena chiedersi perché, nonostante l’attenzione sul tema, fatichiamo ancora a trovare risposte efficaci. E cosa, concretamente, ostacola un cambiamento reale.
Il sindacato: come l’ho conosciuto. Ho fatto un percorso nella CISL: ci sono arrivato nel 2008, svolgendo uno stage curriculare partecipando a una ricerca sul settore delle telecomunicazioni. Erano gli anni del boom dei call center, il tempo dei lavoratori nei servizi outsourcing delle grandi multinazionali. Si iniziava a parlare di precarietà. Turni spezzati, contratti brevi, incertezza diffusa: era il contesto in cui molti giovani muovevano i primi passi nel mondo del lavoro. Il sindacato non l’ho conosciuto tramite una campagna o uno slogan, ma grazie a persone che avevano voglia di ascoltare, spiegare, accompagnare. Da lì è nata una tesi di laurea, poi un percorso personale. E oggi anche un incarico.
Un percorso non lineare. Ci sono stati distacchi, arrabbiature, dubbi, incomprensioni. Ma anche un senso di appartenenza che si è costruito nel tempo, dentro le relazioni, nei luoghi del lavoro, nel confronto quotidiano. Oggi, all’interno della CISL, mi occupo di rappresentanza sindacale nella Federazione Università dell’Ateneo in cui lavoro, con particolare attenzione alle tematiche del personale tecnico-amministrativo, alla contrattazione e al dialogo con le nuove generazioni di lavoratori. Il sindacato, alla fine, lo si conosce facendolo. Partecipando. Chiedendo. A volte anche sbagliando.
Il sindacato è la CGIL? O CGIL-CISL-UIL? C’è un nodo di rappresentazione collettiva che non possiamo ignorare. Quando si parla di “sindacato”, molti pensano automaticamente alla CGIL. Per altri, CGIL-CISL-UIL sono una sigla indistinta, quasi un monoblocco. Oppure si evocano i sindacati di base, connotati come più “radicali” o alternativi. In ogni caso, ciò che sfugge è la pluralità del sindacalismo italiano, fatta di culture politiche diverse, strategie divergenti, visioni a volte in conflitto. Negli ultimi mesi, il referendum dell’8 e 9 giugno scorsi ha contribuito a riaccendere il dibattito pubblico sul lavoro, riportando al centro temi come i contratti a termine, i licenziamenti, la rappresentanza. Tuttavia, ha anche messo in luce le fratture tra le confederazioni, generando una percezione di frammentazione, ambiguità, distanza. Eppure, non è nulla di nuovo. La dialettica tra le grandi sigle confederali accompagna da decenni la storia del lavoro italiano. Il recente volume Carniti e Berlinguer: due sinistre a confronto di Salvatore Vento (FrancoAngeli, 2025) ricostruisce lo scontro tra due visioni sindacali negli anni Ottanta: da un lato Pierre Carniti, allora segretario generale della CISL, sostenitore di un sindacato autonomo, capace di incidere politicamente senza subordinarsi ai partiti; dall’altro Enrico Berlinguer, che concepiva il sindacato come parte integrante dell’azione politica del PCI.
Il sindacato, in quanto spazio plurale, è anche luogo di confronto e di conflitto tra visioni diverse. Ma per chi guarda da fuori, tutto questo può sembrare confuso, o suonare come l’ennesima dimostrazione di autoreferenzialità, con il risultato che la partecipazione si riduce a un’adesione passiva, il dibattito scivola nella tifoseria, e ogni occasione di costruire alleanze sociali viene sprecata. Ecco perché oggi è più che mai necessario ridare senso alla parola “rappresentanza”: non solo nel gesto simbolico, ma nella contrattazione, nel confronto, nella quotidianità dei luoghi di lavoro. Una sfida difficile ma chi si è avvicinato al mondo sindacale lo sa: non è semplice. Spesso, la prima volta che un giovane sente parlare di sindacato è attraverso gli annunci di uno sciopero dei mezzi pubblici. Il sindacato appare come qualcosa che “blocca”, che crea disagio, più che come uno strumento collettivo per rivendicare diritti.
Il tema del ricambio generazionale riguarda trasversalmente tutte le organizzazioni sindacali. Secondo i dati più recenti, nel 2024 la CGIL contava 5.172.844 iscritti, di cui 2.419.020 pensionati: quest’ultimi rappresentano circa il 46,8% della base. Nella CISL, su 4.163.327 iscritti, 1.612.900 erano pensionati, pari a circa il 38,7%. Questo scarto, pur contenuto, segnala un diverso equilibrio tra attivi e non attivi nelle due Confederazioni e apre interrogativi su come ciascuna stia affrontando la sfida del rinnovamento.
Una sfida che si complica. Tra i temi che più spesso emergono nel dibattito sindacale c’è quello del salario minimo. Un tema che merita di essere affrontato con attenzione rispetto alle trasformazioni del lavoro e alla varietà dei contesti locali. In molte aree del Paese, la questione salariale riguarda lavoratrici e lavoratori impiegati in settori sottopagati o scarsamente rappresentati, dove la contrattazione collettiva fatica a incidere. Il tema non è solo quello di definire una soglia ma di capire come e dove garantire condizioni dignitose e coerenti con il costo reale della vita. E allora serve un intervento che sia territoriale, contestuale, radicato, capace di leggere il lavoro non come astrazione, ma come realtà cosiddetta embedded, inserita nei contesti sociali, produttivi, culturali. È una questione di giustizia, non di bandiere.
Il lavoro invecchia. Crescono gli over 50, calano i giovani. Il sindacato fatica: perché si regge su un sistema di rappresentanza che funziona bene nei luoghi strutturati, ma molto meno dove il lavoro è precario, invisibile, mobile. Questo rende più difficile anche l’incontro tra giovani e sindacato. Non perché manchino i problemi da affrontare, ma perché manca spesso uno spazio riconoscibile dove farlo. L’idea stessa di partecipare perde forza, senso, possibilità. E poi ci sono le partite IVA. I freelance, le collaborazioni, i finti lavoratori autonomi. Un mondo vasto, individualizzato, dove la solitudine è la norma e dove la rappresentanza è ancora tutta da costruire. Mi domando: riusciremo a superare l’impianto dello “Statuto dei lavoratori” per costruire finalmente uno “Statuto dei lavori”? Uno strumento capace di tutelare anche chi oggi lavora fuori dai confini tradizionali del lavoro dipendente. Rappresentare queste figure – soprattutto se giovani – è forse la sfida più urgente e più difficile per il sindacato di oggi. E di domani.
Una partecipazione mancata. In questo contesto, anche la partecipazione sindacale si è trasformata. Non è scomparsa ma si è dispersa. È più individuale, più silenziosa, più intermittente. Molti giovani osservano il sindacato come osservano la politica: con un misto di sospetto, rabbia e disincanto. Ci si arrabbia con chi ha il compito di rappresentare – sindacati, partiti, istituzioni – ma non ci si riconosce più nel ruolo di soggetto attivo, capace di prendere parola e costruire rappresentanza dal basso. Si sta fuori per non essere complici, ma si resta impotenti. È un cortocircuito: la sfiducia nelle istituzioni genera distanza, ma la distanza impedisce il cambiamento. E chi resta fuori, finisce spesso per non riconoscersi né come soggetto collettivo, né come interlocutore attivo.
Una ricerca da cui ripartire. In questo panorama, è importante segnalare quando un’iniziativa rompe la superficie dell’autoreferenzialità. La recente ricerca promossa dalla CISL Lombardia su oltre 3.500 giovani iscritti è un esempio virtuoso. Un lavoro condotto con rigore, apertura e profondità ha saputo restituire una fotografia necessaria:
- Redditi bassi (1.576 euro al mese in media)
- Differenziali di genere marcati (–17,9% per le donne a parità di contratto)
- Lavoro nero e irregolare ancora strutturale
- Incapacità di progettare una famiglia
- Sfiducia profonda nel sistema pensionistico
- Ma anche: un 95,6% che riconosce valore nella partecipazione
Un dato, quest’ultimo, che non andrebbe letto come consolazione, ma come chiamata. Non come la prova che “qualcosa si muove”, ma come mandato ad agire. Serve un sindacato che non chieda solo adesione, ma che offra senso, spazio e prospettiva. Un sindacato che, per rappresentare il lavoro che cambia, accetti di cambiare anch’esso. E per farlo, non bastano campagne. Servono relazioni, luoghi, ascolto. E la pazienza di costruire comunità, dove oggi ci sono solo fratture.
Una delle particolarità della ricerca è che una parte del campione non è iscritta al sindacato. Questo rende ancora più interessante l’analisi dei dati, perché consente di intercettare anche la percezione di chi guarda al sindacato “da fuori” – con curiosità, distanza, scetticismo o desiderio di partecipare. Un’operazione di ascolto aperta, che rafforza il valore di quanto emerso.
Giovanni Castiglioni