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Home - Approfondimenti - Interviste - Giuseppe Roma, Attenti, è a rischio la democrazia

Giuseppe Roma, Attenti, è a rischio la democrazia

di Massimo Mascini
17 Dicembre 2020
in Interviste
Giuseppe Roma, Attenti, è a rischio la democrazia

Il 2021 potrebbe essere un anno migliore del 2020, ma non è certo. Perché tra pochi mesi avremo 1,4 milioni di persone in difficoltà e non potremo aiutarli tutti. Giuseppe Roma, che i problemi economici li conosce da vicino, non fosse che perché per venti anni è stato il direttore del Censis, crede che noi dobbiamo a tutti i costi riprendere la via dello sviluppo, anche perché le risorse del Recovery Fund non saranno un regalo, verranno solo a fronte di investimenti in grado di avere un ritorno, economico o sociale, elevato. I problemi nascono dal fatto che manca la consapevolezza della necessità di questo scatto di forza, la classe politica specialmente sembra non capire cosa stiamo rischiando. Perché le difficoltà economiche hanno sempre spianato la strada alle dittature, per cui è in forse il nostro livello di democrazia.

Roma, che dobbiamo aspettarci nel 2021?

Il Coronavirus passerà. La spagnola è durata due anni, questa pandemia dura già quasi da un anno, tra qualche mese passerà. Ma non passeranno le preoccupazioni.

Cosa la preoccupa?

Mi sembra che nel paese manchi la forza che sarà necessaria quando usciremo dall’emergenza sanitaria. Si fanno tanti discorsi sulla necessità di cambiare, di fare le riforme che permettano di avere uno sviluppo reale e consistente, ma ho la sensazione che questa consapevolezza di dover cambiare registro non sia avvertita dalla popolazione e, purtroppo, nemmeno dalla classe dirigente.

Non ci si sta rendendo conto dei pericoli che corriamo?

Ho questa sensazione e mi fa paura perché la situazione è più grave di quanto non appaia.

In quale prospettiva?

Sotto diverse prospettive, anche sotto quella del lavoro.

In che senso? Cosa può accadere?

Un recente studio di Bankitalia ci ha detto che noi stiamo sostenendo, tra cassa integrazione e blocco dei licenziamenti, 800mila persone. Se a queste si aggiungono i 600mila che, come ci informa l’Istat, hanno perso il lavoro in questo 2020, abbiamo 1,4 milioni di persone in difficoltà, una cosa che nessuno si può permettere. Quindi dobbiamo intervenire. Il problema è come e con quali risorse.

Qual è la sua risposta?

Ci sono due strade. La prima prevede uno Stato più interventista. Uno Stato che entri nel mercato per supplire ai fallimenti del mercato. Come si sta facendo per l’Ilva, tanto per capirci.  Una tendenza non solo italiana, accade in tutto il mondo dopo la sbornia della globalizzazione. Uno Stato dunque che interviene, immagine che si allaccia a quella dello Stato assistenzialista. Si ritiene giusto che, essendo cresciute le disuguaglianze lo Stato intervenga a favore di chi non ha risorse materiali, di chi non ce la fa da solo.

Ha una sua ragione.

Sì, ma in questo modo non si risolve il problema. Perché non abbiamo le risorse necessarie per sostenere una così grande massa di persone, che sta anche crescendo, divenendo più numerosa. Se ci si avvia a un periodo in cui si produce di meno, ci sono più poveri e si vuole fare più spesa pubblica, il modello non regge.

Ma aiutare chi è in difficoltà è indispensabile.

È certamente opportuno aiutare chi non ce la fa. Ma questi interventi devono essere sempre mirati. Non puoi aiutare a vita tutti coloro che non ce la fanno a sostenersi. Si deve puntare sui progetti che hanno un ritorno, economico o sociale, anche solo sociale, ma devono averlo. E’ quanto dice Draghi quando afferma che è giusto indebitarsi ma solo per progetti che hanno un ritorno. E l’assistenza un ritorno non lo assicura. Si afferma che dare aiuti a chi è povero ha un senso perché questo aumenta i consumi e l’economia riparte. Ma noi dobbiamo affrontare una crisi della domanda, ma anche dell’offerta. Lo affermano i dati dell’Ocse.

Cosa dicono questi dati?

Che quest’anno perderemo 142 miliardi di Pil, il 9,1%, e che con un forte rimbalzo il prossimo anno potremmo riprenderne solo 61. Ma non è automatico che avremo questo rimbalzo e nemmeno che sarà consistente. E del resto partiamo svantaggiati, perché un anno fa, prima della pandemia, non avevamo ancora recuperato quanto perso nella crisi finanziaria del 2008-2012. Quindi con tutta probabilità avremo una riduzione consistente della base economica. E’ vero che non viviamo solo di Pil, che ci sono altri valori, ma se devi fare degli investimenti importanti, per esempio nella sanità, nella scuola, le risorse sono indispensabili. Ti puoi indebitare nel breve periodo, ma nel lungo devi riprendere lo sviluppo.

Il problema è come riuscire a recuperare lo sviluppo.

Le risorse ci sarebbero, il Recovery Fund, che non è però un fondo come tanti di natura comunitaria, quelli che ci hanno dato per tanti anni soldi per il mezzogiorno che poi non riuscivamo a spendere. Questa volta è diverso. E’ come se avessi una cassaforte e la mettessi a disposizione ma solo per chi riesce a fare degli investimenti che hanno un ritorno economico e sociale. Non è facile. E per ottemperare a questa indicazione la prima cosa da fare è coinvolgere i protagonisti, le imprese e i sindacati. Per comprendere questo basta guardare a quanto ha fatto l’Emilia Romagna. Una regione modello, con risultati economici e sociali molto avanzati. Dietro questa crescita c’è un patto che nel 2015 la regione ha sottoscritto con l’industria, gli artigiani e il sindacato, che sono riusciti a realizzare una vera convergenza di interessi, nel senso che gli interessi delle singole parti non sono stati abbandonati, ma sono stati fusi assieme a quelli delle altre parti in nome dell’interesse comune.

Con una concertazione?

La si può chiamare come si vuole, ma solo con mediazioni alte si riesce a raggiungere gli interessi generali.

Ed è possibile realizzare lo stesso obiettivo al livello nazionale?

Le condizioni non sembrano le migliori. Confindustria non sembra molto propensa al dialogo, anche se nel complesso forme di dialogo ci sono. Servirebbe un federatore degli interessi, e questo lo può fare solo la politica. Il punto è che le forze politiche non sembrano essere in grado di svolgere questo compito, sono sempre in fibrillazione, le coalizioni sono deboli, precarie.

Come si esce da questa situazione?

Bisognerebbe recuperare lo spirito degli anni 50, quando tutti si sono rimboccate le maniche per fare le cose che dovevano essere fatte. Allora c’erano grandi personaggi, è vero, ma il boom l’hanno fatto i piccoli imprenditori, gli artigiani, chi si è dato da fare. Bisognerebbe recuperare quello spirito, ma adattarlo alle esigenze e agli obiettivi dei nostri tempi, puntando sugli obiettivi dell’oggi, per la produttività, la tecnologia. Non è facile, certo, come dimostra il fatto, tra gli altri, che non si riesce a fare una cosa semplice e utile come sarebbe avere la fibra ottica in tutta Italia. Esistono tutte le condizioni per procedere speditamente su questa strada, ma siamo bloccati sulla governance, non si sa chi deve fare le cose.

Torniamo però sempre alla stessa domanda, la politica ce la fa a compiere questo passo, che pure sembra indispensabile?

Qui deve subentrare l’ottimismo della volontà. Ma deve subentrare soprattutto la consapevolezza che questo è un treno che non passerà più. Determinanti sono i prossimi anni. Nel 2027 ci troveremo con un monte di debiti e nessuno ci vorrà più fare credito. Se nel frattempo non riparte lo sviluppo non ce la faremo mai più. E potrebbe bloccarsi anche la democrazia, perché le grandi difficoltà economiche, ce lo insegna la storia, portano le dittature.

Democrazia a rischio?

Sì, vedo a rischio il livello di democrazia. I politici dovrebbero smettere di fare i loro giochini della torre, chi butto giù, chi tengo in piedi. Le urgenze sono altre. Questo è un momento cruciale, spero che ci venga qualche idea. Altri paesi hanno provato il dialogo tra tutte le forze politiche, maggioranza e opposizione, per decidere cosa fare. La Francia, la Spagna hanno tentato questa via per trovare concordia nazionale.

Quindi per il nostro paese si prospettano pericoli seri.

Sì, perché gli equilibri sociali traballano pericolosamente. E i nodi verranno alla luce molto presto, nei prossimi mesi. A marzo finisce il blocco dei licenziamenti e se la pandemia allora sarà sotto controllo non ci sarà motivo per mantenere questo blocco. Ma allora ci troveremo con una massa sempre più grande di persone in difficoltà. Per questo dico che bisognerebbe arrivare a quella data con il numero più alto possibile di cantieri aperti, che corrano veloci e occupino molte persone. Non solo edilizia, certo. E soprattutto bisogna far capire che ci stiamo muovendo. Perché il vero pericolo è la limitata consapevolezza della crisi che ci sta per piombare addosso.

Insomma, ci aspetta un 2021 difficile.

Il 2021 dovrebbe essere meglio del 2020, ma non a caso uso il condizionale, perché non è detto che ci sia davvero una ripartenza, non è automatico che ci si riprenda.

Massimo Mascini

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