Dobbiamo tifare per la recessione o no? Due interventi nei giorni scorsi fanno emergere, con insolita chiarezza, i nodi del contrasto fra falchi e colombe al vertice della politica monetaria europea. O, meglio, consentono di leggere le dinamiche di quel contrasto, non affidandosi al consueto esercizio di leggere i fondi di caffè, ma sulla base di dati e ragionamenti. Prima, però, due parole per delineare il contesto in cui avviene il dibattito.
Uno, l’economia europea è, puramente e semplicemente, ferma. L’ultimo trimestre del 2023 è stato a crescita zero e, molto probabilmente, lo sarà anche il primo trimestre 2024.
Due, l’inflazione sta scendendo a picco. Era al 10,8 per cento a ottobre 2022, è a 2,8 per cento a gennaio 2024. Ma questo se la calcolate sugli ultimi 12 mesi. Negli ultimi sei è, invece, salita ad un ritmo che, riportato su base annuale, vale il 2,1 per cento. Negli ultimi tre mesi è meno 0,6 per cento. E la famosa inflazione di fondo, quella al netto di cibo ed energia, ovvero il nocciolo duro dell’inflazione? 1,2 per cento, sempre negli ultimi tre mesi. In altre parole, aveva ragione chi sosteneva che il boom dell’inflazione era frutto di choc temporanei, come l’aumento del prezzo dell’energia, la pandemia, la guerra in Ucraina e che si sarebbe normalizzata, una volta assorbiti questi choc. I prezzi stanno rallentando anche più in fretta di quanto previsto e quel 2 per cento bramato dalla Bce è ad un passo.
Non così in fretta, dice Isabel Schnabel. L’ottimismo creato dalla discesa dell’inflazione sta spingendo le banche a concedere prestiti a condizioni più favorevoli, nella convinzione che, presto, la Bce taglierà i tassi di interesse. Ma questo rischia di rinvigorire la crescita economica ed è dunque una trappola per la lotta all’inflazione. Come mai? Perché è in atto una ondata di richieste salariali per recuperare potere d’acquisto. A livello europeo, circa il 40 per cento dei lavoratori (in Italia molto di più) si prepara a rinnovare il contratto. Quanto spunteranno a fine negoziati? E, soprattutto, come gestiranno le aziende questo inevitabile aumento dei costi? La speranza della Schnabel e della Bce è che le imprese assorbano gli aumenti, pescando nei pingui profitti degli anni scorsi, e non scarichino l’aumento dei costi in aumento dei prezzi. Ma solo il mantenimento della stretta monetaria e il conseguente rallentamento dell’economia e della domanda può togliere lo spazio per aumentare i prezzi. Se l’economia e i consumi riprendessero a marciare, le aziende avrebbero margine e spazio, sul mercato, per recuperare i maggiori costi salariali con prezzi più alti.
Attenzione a non farsi ipnotizzare dai salari, ribatte il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, nel suo discorso più recente. Oggi, il rischio concreto è che, se si afferma la recessione, le aziende, che finora hanno mantenuto la forza lavoro nella attesa di tempi migliori, comincino a licenziare. L’atmosfera, infatti, è pesante: la stretta al credito sta toccando livelli che non si vedevano più dalla grande crisi del 2008. E lo spazio per normalizzare la politica monetaria, tagliando i tassi, invece, c’è: l’inflazione, in tutte le sue componenti, sta scendendo anche più rapidamentec di quanto non fosse salita.
L’incubo di una spirale prezzi-salari è, al contrario, secondo Panetta, “una probabilità molto esigua”. Per il semplice motivo che i salari pesano solo per il 40 per cento dei costi, in media. Il 20 per cento nell’industria e, anche nei servizi, non più del 50 per cento. Sono in crescita, ma questa crescita, dice Panetta, è compensata dalla discesa degli altri costi, i prezzi dell’energia e dei beni intermedi. Il risultato è che le attese delle imprese sui futuri aumenti dei costi totali sono molto contenute. In questo quadro, conclude Panetta, l’aumento dei salari, oltre ad essere “fisiologico”, può anche contribuire, aumentando i consumi, a ridare fiato all’economia.
Esattamente il contrario di quanto vorrebbe la Schnabel, ma l’impressione è che la divergenza vada al di là dell’analisi dei meccanismi in atto e riguardi, piuttosto, la recessione che sta mordendo l’Europa, molto più preoccupante, agli occhi di Panetta, di quanto non sembri implicare il ragionamento di Isabel Schnabel.
Qui non è solo in ballo un raffreddamento della congiuntura. Il riferimento al livello dei consumi non sembra casuale, anche se il governatore della Banca d’Italia non si inoltre in una analisi di prospettiva. Più di un economista è convinto, infatti, che l’Europa – e l’Italia in prima fila – si stia infilando in una tenaglia.
Da una parte, la stretta monetaria, che sta portando ad un razionamento del credito alle imprese e alle famiglie. Ma, dall’altra, il ritorno dell’austerità. Quale sia il giudizio sull’accordo che ha portato al nuovo Patto di stabilità che regola i bilanci nazionali europei, gli effetti immediati dei nuovi parametri (la riduzione dell’1 per cento del debito, la spinta a ridurre all’1,5 per cento il deficit) saranno una brusca stretta alla spesa pubblica, già ora, nel 2024. Dopo tre anni – quelli dopo pandemia – a briglia più o meno sciolta, l’inversione di rotta sui bilanci è mozzafiato. Dieci anni fa, l’austerità di marca tedesca sui bilanci veniva, in qualche modo, compensata dalla generosità della Bce di Mario Draghi. Oggi, le due politiche non si compensano, ma si sommano.
Ecco, dunque, che, un po’ paradossalmente, gli aumenti salariali, anzichè strumenti del demonio, possono essere una ciambella di salvataggio: sostenendo i consumi e, dunque, la domanda possono aiutare l’economia a sostenere il doppio impatto della politica monetaria e di quella fiscale. Se anche Panetta la pensa in effetti così, a Francoforte falchi e colombe non potrebbero essere più lontani.
Maurizio Ricci