di Mario Vigna, presidente di Confederquadri
Nel suo editoriale del 30 novembre Massimo Mascini dà conto delle difficoltà incontrate nel percorso che, con una certa enfasi, era stato avviato dal Ministero del Lavoro per realizzare una intesa tra le parti sociali sul tema della partecipazione dei lavoratori agli utili ed alla vita delle imprese. Eppure l’impegno diretto del Governo e il clima politico positivo, manifestatosi attraverso la predisposizione di un disegno di legge bipartisan elaborato dal senatore Ichino, avrebbero dovuto favorire questo percorso verso questa innovazione delle relazioni sindacali in grado, potenzialmente, di assicurare al sistema produttivo quel salto di produttività e di competitività indispensabile per fronteggiare efficacemente le sfide del dopo crisi.
Dobbiamo, invece, registrare un pericoloso stallo del confronto tra le parti sociali che non sono state capaci, fino ad ora, di elaborare, come era stato loro richiesto dalle autorità ministeriali, un avviso comune che sarebbe stato assunto come base di partenza per la successiva elaborazione delle normative applicative.
Questa dimostrazione di incapacità o, molto più plausibilmente, di mancanza di volontà da parte di CGIL, CISL e UIL e di Confindustria dimostra ancora una volta tutti i limiti del ricorso all’avviso comune delle parti sociali, almeno nella sua versione italiana, come strumento per contribuire alla definizione di normative contrattuali, soprattutto quando queste debbano rispondere a contenuti di significativa innovazione.
Per quanto ci riguarda tutto questo non ci stupisce e non ci meraviglia.
Basta, infatti, guardare con un po’ di attenzione la storia degli avvisi comuni realizzati nel nostro Paese per accorgersi che essi sono stati costantemente improntati alla conservazione e non all’innovazione.
Alla conservazione, innanzi tutto, del monopolio della rappresentanza sindacale ed imprenditoriale delle organizzazioni tradizionali nonostante la innegabile trasformazione della composizione professionale del mondo del lavoro, della sua diversa tipizzazione, che non viene minimamente ricompresa negli interessi delle organizzazioni a cui continuano ad essere richiesti gli avvisi comuni.
Ma è, anche in ragione di questa mancanza di rappresentatività di una parte moderna ed innovativa del mondo del lavoro e alla conservazione di poteri e di equilibri che siano in grado di perpetuare la legittimazione dei loro reciproci ruoli.
Probabilmente è proprio per questi motivi che le Associazioni imprenditoriali, insieme a CGIL, CISL e UIL, hanno pervicacemente tenuto lontani dalle loro discussioni attorno alla predisposizione degli avvisi comuni tutte le altre organizzazioni sindacali e professionali, veramente rappresentative di gran parte del mondo del lavoro più professionalizzato, anche quando, queste ultime, partecipavano ai tavoli istituzionali nei quali si sarebbero dovute formalizzate le normative sulle materie oggetto di quegli avvisi comuni.
La partecipazione, però, è materia troppo importante per il futuro delle imprese e per la qualità dei rapporti sindacali per potersi rassegnare agli ostacoli frapposti da una CGIL ancora rinchiusa nel suo fortino ideologico ed una Confindustria bloccata da valutazioni di corto respiro e di scarso coraggio.
Le vere trasformazioni nelle relazioni sindacali si sono realizzate quando, come nel 1993, il Governo e le Istituzioni hanno dimostrato volontà e determinazione nel perseguire obiettivi che si ritenevano determinanti, insieme ai lavoratori ed alle imprese, per l’intero Paese.
Se, come è stato dichiarato e come è profondamente giusto, l’attuale Governo ritiene strategico un accordo sulla partecipazione dei lavoratori alla vita ed ai risultati delle imprese batta un colpo e chiami alla realizzazione di questo risultato tutte le forze che condividono senza ambiguità questo obiettivo.
Siamo profondamente convinti che a questo appello di responsabilità la maggioranza delle organizzazioni rappresentative di tutte le articolazioni del mondo del lavoro garantirà piena e convinta disponibilità.