“Bloccare lo spezzatino!” tuona Landini e l’allarme del segretario della Cgil rimbalza – a volte a mezza voce, a volte a gola spiegata – in vari cantoni del palazzo della politica, presi in contropiede dall’annuncio di un interesse americano per il più importante operatore della telefonia nazionale. C’è il rischio, però, di un clamoroso equivoco. Landini ha il problema di difendere l’occupazione di circa 40 mila addetti Tim, ma evitare che lo scorporo della rete di comunicazione ancora in mano all’ex monopolista (soprattutto, l’ultimo miglio di collegamento fra centralina e abitazione) dai servizi commerciali Telecom si traduca in tagli selvaggi della manodopera è una partita diversa.
La partita chiave è un’altra e dice esattamente il contrario dell’appello di Landini: “Evviva, arriva (finalmente) lo spezzatino e la possibilità di salvaguardare, sottraendola al monopolio privato, la neutralità della rete, pilastro della democrazia moderna, di cui costituisce il sistema nervoso”.
Alle spalle c’è il pasticcio creato, trent’anni fa, dalla privatizzazione Telecom. L’ondata di privatizzazioni degli anni ’90 (Mario Draghi protagonista come direttore generale del Tesoro, giova ricordarlo) ha profondamente modificato e ammodernato l’economia italiana. Ma erano tempi difficili e l’esigenza di fare cassa ha finito per prevalere, in alcuni casi, sulla corretta gestione di uno snodo cruciale, come la cessione al mercato di un servizio pubblico. Il principio da seguire, infatti, è molto chiaro: se quel servizio pubblico viene fornito in maniera esclusiva inevitabilmente su un solo canale (elettricità, gas, ferrovie, telefoni) occorre assicurare che nessuno possa controllare contemporaneamente il canale e il servizio che se ne ricava. Altrimenti, il mercato nasce zoppo e gli altri concorrenti menomati. Dunque, se hai la rete non puoi vendere servizi e viceversa. L’alternativa – assolutamente inefficiente e spesso impercorribile – è la moltiplicazione delle reti.
Questa regola è stata seguita con efficienza nel caso dell’elettricità (con la rete a Terna) e del gas (Snam) e una pletora di fornitori in concorrenza. Molto, ma molto a malincuore, nel caso delle ferrovie. Formalmente, Rfi (i binari e le stazioni) è una società separata e diversa da Trenitalia (i treni), ma tutt’ e due risalgono alle Fs e le frequenti lamentele del fornitore privato mostrano che la separazione non è convincente. Dove la regola è stata, invece, completamente, saltata è nel caso dei telefoni: privatizzando Telecom, lo Stato vendette in un unico pacchetto rete e servizi.
Perché? Molto probabilmente per un errore – ebbene sì – politico. Vendere Telecom appariva difficile e il governo cercava un interlocutore di alto profilo. Pensò di averlo trovato in Gianni Agnelli e, per invogliarlo, gli preparò un pacchetto d’eccezione: rete e servizi del monopolio in una unica confezione. I futuri concorrenti si sarebbero arrangiati confidando nelle capacità regolatorie dello Stato per evitare lo strapotere del monopolista.
Fu un buco nell’acqua. Agnelli non abboccò e il governo si trovò a fare un regalo inutile, che da anni azzoppa le tlc italiane. Tim, infatti, tutela gelosamente il suo monopolio dell’ultimo miglio (appetitoso asset aziendale), ma non ha i soldi per investire con coraggio nell’ammodernamento complessivo di tutta la rete. Sono anni che giriamo intorno a questo nodo, cercando marchingegni per affiancare una entità pubblica a Tim nella gestione della rete, senza sottrarne la proprietà all’ex monopolista che, date le sue difficoltà finanziarie, senza quell’asset rischia il botto. Un buon pezzo del Pnrr e dei soldi europei rischiano di arenarsi proprio su questo mancato decollo di una moderna rete di tlc nazionale.
Ed ecco arrivare, come i Re Magi, gli americani: interessati soprattutto a mettere le mani sul promettente servizio commerciale e assai meno agli impegni di investimento legati alla rete. E’ un’occasione imperdibile e, quasi certamente, irripetibile. La rete, agli americani nuovi proprietari di Tim, andrebbe certamente pagata, ma il governo, minacciando l’uso del golden power, visto l’interesse strategico della telefonia, e il blocco dell’acquisto, è certamente in grado di strappare un prezzo ragionevole. Il pacchetto d’azioni Tim (circa il 10 per cento) oggi nelle mani della Cassa depositi e prestiti, più quelle che la stessa Cdp si apprestava a comprare nell’ambito di una risistemazione nazionale della telefonia, possono fornire la liquidità necessaria all’operazione.
Nessun operatore telefonico di rilievo, in Italia, è, in realtà, italiano. Né Vodafone, né Wind, né Iliad, né la stessa Tim (controllata dai fondi esteri e dalla francese Vivendi). L’arrivo degli americani del fondo Kkr nel servizio ai consumatori non cambierebbe nulla. Quel che conta è la rete: una rete unica e pubblica segnalerebbe un paese migliore.
Maurizio Ricci