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Home - Rubriche - Giurisprudenza del lavoro - Il disabile non è più licenziabile

Il disabile non è più licenziabile

di Biagio Cartillone
13 Maggio 2022
in Giurisprudenza del lavoro
Pensioni, ammessi alla salvaguardia anche i titolari di permessi per l’assistenza a familiari disabili

La lavoratrice ha prestato la sua attività lavorativa dal 1.6.2014 e sino al licenziamento del 15.7.2021 quando, in conseguenza di una prima assenza per malattia del settembre 2020, e della successiva del dicembre 2020, pacificamente aveva superato il periodo di comporto. La lavoratrice ha adito il Tribunale deducendo che la patologia che avrebbe dato luogo alle sue assenze sarebbe unica, avrebbe natura cronica ed invalidante e l’affliggerebbe già dal 2009. Il licenziamento per avvenuto superamento del periodo di comporto, a fronte della sua patologia di lunga durata, costituisce una discriminazione indiretta che comporta la nullità del licenziamento con il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.

Il Tribunale di Milano con ordinanza del 2 maggio 2022 ha accolto la domanda della lavoratrice ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro. Il Tribunale ha assunto nel caso sottoposto al suo esame l’esistenza non di una semplice malattia ma di una vera e propria situazione di handicap. A sostegno di questa tesi il Tribunale di Milano ha richiamato la giurisprudenza della corte di giustizia europea che ha chiarito come “a nozione di handicap vada intesa come un limite che deriva, in particolare, da minorazioni fisiche, mentali psichiche e che ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale”, sicché “utilizzando la nozione di “handicap” all’art. 1 della direttiva di cui trattasi, il legislatore ha deliberatamente scelto un termine diverso da quello di “malattia”. Muovendo da tale considerazione la Corte ha quindi escluso “un’assimilazione pura e semplice delle due nozioni”, precisando che “perché una limitazione possa rientrare nella nozione di “handicap” deve quindi essere probabile che essa sia di lunga durata” e che abbia l’attitudine a incidere od ostacolare la vita professionale per un lungo periodo” per il Tribunale si può parlare di handicap “ogniqualvolta la malattia sia di lunga durata, necessiti di cure ripetute e invalidanti, e/o abbia l’attitudine a incidere negativamente sulla vita professionale del lavoratore anche costringendolo a reiterate assenze “.

L’ordinamento giuridico nazionale ed europeo deve promuovere l’occupazione e la formazione dei portatori di handicap.

Per il giudice europeo, e per la pronuncia in esame anche per quello italiano, ““sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio… le persone portatrici di un particolare handicap… a meno che: i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; o che ii) nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona o organizzazione a cui si applica la presente direttiva sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all’articolo 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi”. L’assunto della assoluta equiparabilità della condizione del lavoratore invalido con quella del lavoratore non disabile ma affetto malattia e, quindi, della possibilità di applicare ai primi la medesima – indistinta – disciplina in materia di comporto è, con tutta evidenza, erroneo. Così operando, infatti, si regolano nel medesimo modo due situazioni radicalmente differenti, violando il principio di uguaglianza sostanziale e, prima ancora, dando luogo a una discriminazione indiretta. Tanto si afferma in quanto i lavoratori affetti da una inabilità sono soggetti portatori di uno specifico fattore di rischio che ha quale ricaduta più tipica, connaturata alla condizione stessa di disabilità, quella di determinare la necessità per il lavoratore sia di assentarsi più spesso per malattia sia di ricorrere, in via definitiva o per un protratto periodo di tempo, a cure specifiche e/o periodiche.

Di qui, necessariamente, l’esigenza di interpretare la disciplina in materia di comporto in una prospettiva di salvaguardia dei lavoratori che, portatori di disabilità, si trovano in una condizione di oggettivo e ineliminabile svantaggio.

Vien da sé che, nella materia che qui ci occupa, alla condizione di invalidità/disabilità deve riconoscersi una rilevanza obiettiva, per il sol fatto della ricorrenza di un’effettiva minorazione fisica e indipendentemente dal riconoscimento formale che della stessa i competenti Enti Previdenziali ne abbiano dato, pena la frustrazione in nuce delle tutele di legge. D’altronde, assoggettare l’applicazione delle tutele riservate ai soggetti portatori di questo specifico fattore di rischio alla ricorrenza, o all’adempimento, di formalità di qualsivoglia natura significherebbe creare un vulnus oltremodo severo allo statuto di protezione previsto dall’ordinamento, frustrandone ratio ed efficacia.

Ed ancora per il Tribunale:

““da ciò si ricava pertanto che la norma contrattuale la quale limita a 180 giorni di assenza l’avvenuto superamento del periodo di comporto – e quindi rende legittima la risoluzione del rapporto di lavoro – non può trovare applicazione nel caso di specie in quanto sarebbe causa di una discriminazione indiretta: pur essendo una disposizione di per sé neutra essa pone il portatore di handicap – in questo caso il ricorrente – in una condizione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori. E’ infatti evidente che il portatore di handicap è costretto ad un numero di assenze di gran lunga superiore rispetto al lavoratore che limita le proprie assenze ai casi di contingenti patologie che hanno una durata breve o comunque limitata nel tempo. E’ per tali soggetti che il termine di comporto è evidentemente previsto. Sicché una interpretazione della norma contrattuale rispettosa dei principi affermati dalla direttiva 2000/78, dal decreto legislativo 2016/03 e dalla sentenza della Corte di Giustizia prima esaminati deve fare escludere dal computo del termine per il comporto i periodi di assenza che trovino origine diretta nella patologia causa dell’handicap (a tale conclusione era peraltro pervenuta la Corte di Giustizia con la sentenza del 2013 richiamata, a proposito di un termine di preavviso di 120 giorni cfr punto 76 della sentenza) [..]E’ infatti evidente che il portatore di handicap aggiunge, ai normali periodi di malattia che subisce per cause diverse dall’handicap, quelle direttamente collegate a quest’ultimo: ma una parità di trattamento tra lavoratori esige che solo con riferimento alle prime i lavoratori portatori di handicap e tutti gli altri siano sottoposti al limite temporale del comporto”.

Per concludere, il Tribunale di Milano ha ritenuto del tutto irrilevante la circostanza che il datore di lavoro non sia stato messo nel tempo al corrente della situazione di salute della lavoratrice. La discriminazione indiretta opera in modo oggettivo: ciò che conta è unicamente l’effetto oggettivamente discriminatorio, a prescindere totalmente dalle consapevolezze del datore di lavoro. Ordinanza Tribunale di Milano nella causa numero ruolo generale 356/2022 del 2 maggio 2022.

In pratica il lavoratore disabile ha un diritto di tutela assoluta, che gli deriva dalla sua malattia cronica, non potendo essere mai licenziato a causa delle sue condizioni personali. La discriminazione, in questo caso, esce dalla porta ma rientra dalla finestra: ad essere discriminati saranno i lavoratori non disabili che continueranno ad avere una tutela limitata rispetto a quella assoluta che potrà godere il disabile. Più disabile sei più non licenziabile diventi. All’infinito.

L’orientamento giurisprudenziale sopra riportato pone seri e gravi problemi nell’azione dell’azienda che non potrà mai avere certezza nell’intimare il licenziamento per superamento del periodo di comporto perché questo licenziamento corre il rischio, di poter essere dichiarato nullo perché la malattia del dipendente, la cui natura è totalmente sconosciuta per legge al datore di lavoro per la giusta tutela della privacy, potrebbe essere qualificata, a posteriore, come situazione di disabilità con le gravose conseguenze risarcitorie e reintegratorie previste per legge (reintegrazione nel posto di lavoro risarcimento del danno non inferiore a 5 mensilità di retribuzione, versamento della contribuzione previdenziale, diritto del lavoratore ad esercitare l’opzione con l’ulteriore aggiunta di 15 mensilità di retribuzione globale di fatto a fronte della risoluzione definitiva del rapporto di lavoro).

Questa ordinanza rende incerto un qualsiasi agire dell’azienda.

Biagio Cartillone

Biagio Cartillone

Biagio Cartillone

Avvocato, Giuslavorista del Foro di Milano - www.biagiocartillone.it

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