di Mario Ricciardi – docente di relazioni industriali nell’Università di Bologna
Si è (ri)aperta, nei mesi scorsi, la caccia al dipendente pubblico. Che non si era mai chiusa, in realtà, ma ha avuto di recente, in un clima sociale nuovamente inasprito dai postumi delle elezioni politiche e dalle vicende della legge finanziaria, un nuovo soprassalto di aggressività.
Vi sono, nel dibattito che è iniziato, alcuni aspetti singolari e interessanti. E’ interessante, ad esempio, che quasi nessuno dei commentatori che oggi intervengono con grande intensità per rivendicare una svolta nella gestione dell’amministrazione pubblica italiana si sia espresso con altrettanto vigore quando, non tanto tempo fa, veniva terremotata la normativa sulla dirigenza, o venivano messe in discussione alcune regole elementari di funzionamento del sistema contrattuale. E’ singolare vedere come oggi, invece, i problemi, veri o presunti, della pubblica amministrazione italiana vengano buttati tutti assieme sul tappeto: secondo le tesi che vanno per la maggiore, i pubblici dipendenti sono troppi, guadagnano troppo e rappresentano un problema per i bilanci pubblici, sono inetti e fannulloni in una percentuale che nessuno è ovviamente in grado di precisare, ma che varia a seconda delle opzioni e del radicalismo dei vari commentatori (a proposito: anche alla luce di questo dibattito sarebbe ora di ripensare al significato dei termini: riformista e radicale).
In questo modo di argomentare vi è molta voglia di provocazione, e forse anche l’intenzione e la convenienza di lisciare il pelo alle crescenti schiere di tricoteuses prodotte dall’imbarbarimento del sistema politico e dal veloce deterioramento dei rapporti sociali.
Alla base di questa rinnovata attenzione vi è tuttavia anche un nodo problematico assolutamente reale: quello dello stato di salute, per dir così, della più ambiziosa riforma della pubblica amministrazione che sia stata pensata e varata dal dopoguerra ad oggi, quella per intenderci, che va comunemente sotto il nome di “riforma Bassanini”, e della scommessa che quella riforma implicava. Che, cioè, la riforma del lavoro pubblico, intesa come colonna portante della complessiva riforma dell’amministrazione, fosse possibile con un elevatissimo grado di consensualità, e attraverso comportamenti dei vari soggetti (governo e sindacati, innnanzitutto) capaci di scavalcare le logiche di breve periodo e l’esclusiva tutela degli interessi di parte, per farsi carico, anche, dell’interesse generale. Quella riforma si proponeva di suscitare una gran quantità di comportamenti virtuosi: maggiore responsabilizzazione dei dirigenti e del personale, premi al merito e sanzioni al demerito, rapidità e flessibilità nelle procedure, deflazione del contenzioso.
Non è questa la sede per tentare di formulare bilanci. Come chi scrive ha tentato di dimostrare in altre occasioni, il panorama complessivo appare oggi caratterizzato da alcuni successi, da alcune false partenze, ma anche da ritardi ed insuccessi diffusi. Nel suo complesso, la riforma sembra aver intaccato la superficie delle molte incrostazioni che si erano sedimentate col tempo nei comportamenti della pubblica amministrazione, senza riuscire, salvo eccezioni anche importanti, ma limitate, a penetrare in profondità, a modificare stili e comportamenti, a creare nella pubblica amministrazione italiana quel clima davvero nuovo che verso la metà degli anni Novanta era sembrato possibile, se non davvero a portata di mano.
Leggi e contratti nazionali sono cambiati molto, cercando di mettere a disposizione delle amministrazioni strumenti nuovi per la gestione del personale. Ma nella realtà quotidiana troppe cose continuano a procedere come sempre. Scarsa voglia di innovazione organizzativa, una dirigenza ormai troppo invecchiata per essere davvero, come sarebbe necessario, il motore del cambiamento, sistemi di incentivazione resi inutili dalla scarsità di risorse disponibili ma anche da prassi che tendono ad aggirarne gli obiettivi e modificarne il significato: in breve, lo spirito della riforma sembra in troppi casi essere stato inghiottito e svuotato alla prova della quotidianità.
La ricerca delle cause e delle responsabilità di questo stato di cose è naturalmente molto importante, non solo per capire cosa è accaduto e perché, ma anche per ragionare su come procedere nell’immediato futuro.
E’ possibile che nell’elaborazione della riforma vi sia stata un’eccessiva, e forse un po’ ingenua, sopravvalutazione delle opportunità e delle proprie forze. A ciò bisogna aggiungere però che i comportamenti dei soggetti non sono stati, nel complesso, all’altezza della situazione. La politica in questi anni non ha dato buona prova di sé, innanzitutto con l’esempio. Non si può pretendere che l’amministrazione sia rigorosa ed irreprensibile se la politica non lo è. Quanti codici deontologici che le amministrazioni pubbliche si sono meritoriamente dati in questi anni sarebbero stati tranquillamente applicabili ai vertici politici di quelle stesse quelle amministrazioni? Ma, soprattutto, la gestione delle relazioni sindacali e del personale è stata (in particolare nella scorsa legislatura) per troppi aspetti trascurata, a partire dai governi, che hanno guardato al lavoro pubblico esclusivamente dal punto di vista dei costi (e della fedeltà), e pochissimo dal punto di vista del funzionamento e dell’efficienza.
Anche i sindacati hanno forti responsabilità nel logoramento della riforma. Quella principale sembra essere stata una sorta di “doppiezza” tra i comportamenti ragionevoli e virtuosi espressi dai leader nazionali, e quasi sempre tenuti nelle sedi di contrattazione nazionale, e l’avallo di fatto fornito, con il silenzio se non esplicitamente, ai comportamenti spesso contraddittori e slabbrati mostrati nelle sedi periferiche e nella contrattazione decentrata.
Sono questi gli aspetti che maggiormente preoccupano anche per l’immediato futuro. Si pensi a un tema annoso e delicato, sul quale il sindacato stesso sembra interessato a smuovere le acque, come quello della mobilità. Non si tratta ovviamente di pensare a migrazioni bibliche, che sarebbero impossibili e forse anche inutili, ma ad operazioni di limitato spostamento da settori con esubero di personale ad altri carenti, che spesso esistono nell’ambito della stessa città, e di amministrazioni confinanti. Eppure non si tratta di problemi che si possano risolvere con facilità. Negli ultimi anni, la contrattazione collettiva ha modificato, com’era giusto e inevitabile, lo status retributivo e giuridico del personale dei diversi comparti diversificandolo in base alle diverse esigenze delle varie amministrazioni. I sistemi d’inquadramento professionale sono ormai diversi da comparto a comparto, i salari non sono più definiti in maniera fin troppo omogenea, come è stato per un certo periodo. Spostare personale da un settore all’altro si può, ma non è semplice. Da un lato, occorre una seria e trasparente analisi dei fabbisogni. Dall’altro, sul versante sindacale, occorre trovare un opportuno equilibrio tra la giusta tutela dei diritti acquisiti dai lavoratori e le esigenze di mobilità, che non possono trasformarsi in ricerca di vantaggi indiscriminati sul piano salariale e normativo e che comunque si svolgono nel settore pubblico in un ambiente sicuramente più “protetto” rispetto a quelli che avvengono nei settori privati. Le poche esperienze del passato non sono particolarmente incoraggianti. Ancor oggi si trascinano le conseguenze giudiziarie del passaggio, effettuato alla fine degli anni Novanta, di alcune decine di migliaia di dipendenti dal settore degli enti locali a quello della scuola: e occorre ricordare che si trattava di un “trasferimento” puramente di comparto contrattuale, senza alcuno spostamento del posto di lavoro.
Quello della mobilità è solo un modesto esempio, ma significativo di quello di cui c’è sicuramente e urgentemente bisogno: una forte ripresa di iniziativa da parte del governo e delle amministrazioni sul terreno dell’innovazione e del rigore, e una (ri)presa di responsabilità da parte sindacale. Tenendo conto del fatto che siamo davvero ai tempi supplementari, come rivela l’ormai scatenata fantasia punitiva di certi commentatori, e la crescente eccitazione delle tricoteuses.