Il mancato accordo dei sindacati sul recepimento della Direttiva europea, riguardante i contratti a termine, fu uno dei casi che segnarono l’ arresto dei processi di concertazione in Italia e di crisi dell’unità sindacale. Cerchiamo di ricostruire la vicenda. Quali erano gli indirizzi della Direttiva europea 70/99 sul lavoro a tempo determinato?
Innanzitutto, mi pare sia utile ricordare quale era l’assetto normativo sul contratto a termine, vigente in Italia fino a quel momento. Caratteristica del nostro ordinamento era la combinazione, il forte mix di legge e contrattazione su questa tipologia contrattuale. La legge n. 230 del 1962 e molte altre intervenute successivamente, avevano una costante: un forte rinvio alla contrattazione collettiva, prevalentemente di settore, per definire in modo più specifico le fattispecie, le causali, etc.. Quindi, la legge fissava alcune normative di base sulle condizioni per reiterare in successione i contratti a termine, le proroghe, il concetto di stagionalità, causali, tetti quantitativi etc.. Tutti questi principi venivano poi concretizzati nella contrattazione collettiva. La Direttiva comunitaria non è altrettanto esplicita nel rinvio alla contrattazione collettiva; ma questa è storia di molte direttive comunitarie in tema di lavoro perché, per prassi e per diritto, il grado di cogenza della contrattazione collettiva e del rapporto tra legge e contrattazione collettiva, è molto diverso da ordinamento ad ordinamento.
Tuttavia, la normativa italiana preesistente, di per sé, non aveva elementi di contrasto esplicito con la Direttiva comunitaria. Si sarebbe anche potuto affermare, da parte del Governo, delle commissioni parlamentari, nell’atto normativo di recepimento della Direttiva, che la normativa italiana era già sufficiente a realizzare quei tratti di omogeneità su scala europea che erano le finalità della Direttiva.
Per quanto, tuttavia quell’assetto potesse essere considerato compatibile con la Direttiva, è vero altresì, che la sedimentazione, la stratificazione degli atti contrattuali aveva prodotto un quadro molto frammentato e scarsamente omogeneo; ma soprattutto, analizzando i singoli contratti, si evidenziava che in fondo un’ampia liberalizzazione delle causali era gia in atto. La contrattazione collettiva, per somma successiva di definizioni, aveva comportato che le causali diventassero in alcuni contratti di 80 o 90 voci, rendendo difficile persino immaginare, in ogni singolo contratto, quali potessero essere ulteriori fattispecie cui applicare il contratto a termine.
Permaneva però, in ogni caso, il principio del rinvio alla contrattazione collettiva, elemento qualificante di tutto il quadro normativo italiano.
Quale fu l’atteggiamento della Cgil di fronte a questa prospettiva di riforma del contratto a termine?
Eravamo in una fase, quella dei primi anni del 2000, in cui era in atto una fitta rete di rapporti fra le parti sociali e fra queste ed il Governo in carica, sulle progressive innovazioni da introdurre nel quadro generale delle norme sul mercato del lavoro. Il Patto di Natale riprendeva il principio della ricezione delle direttive per mezzo di un accordo fra le parti sociali, continuando dunque, sulla strada del confronto e della concertazione fra le organizzazioni sociali ed i governi e rispondendo all’esigenza di un percorso di tendenziale armonizzazione del quadro europeo.
Noi, come Cgil, avevamo alle spalle un’elaborazione molto ricca, sviluppata negli anni precedenti; dal 1996, avevo assunto la carica di responsabile del Dipartimento Politiche del lavoro, ed avevamo attivamente contribuito ad una prima fase di riforma del mercato del lavoro concretizzatasi soprattutto nel “Pacchetto Treu”, giudicato da noi positivamente, ora come allora. Tutta quella fase si era svolta in un positivo contesto di relazioni tra le forze sociali ed il Governo che aveva consentito di consolidare risultati innovativi ed equilibrati.
Quando il Governo e la Confindustria proposero di mettere mano in modo specifico al contratto di lavoro a termine, la Cgil non ebbe assolutamente obiezioni a farlo, ma respingemmo subito, in maniera inequivocabile, le eventuali proposte di ridimensionamento del ruolo della contrattazione collettiva, soprattutto al fine di definire tetti quantitativi e facoltà di specificare causali ed altri aspetti. Il nostro intento iniziale era quello di razionalizzare la base legislativa in una sorta di “testo unico”, ponendo fine a quel quadro composito, frammentato, non senza punti deboli e incompiutezze. E soprattutto rendere più funzionale e certo il rapporto fra legge e ruolo della contrattazione collettiva nello specificare le causali, definire le quantità massime consentite, intervenire su altri specifici aspetti, specie al fine di prevenire e contrastare abusi. Nel caso ci fossero stati contrasti su questi punti e fosse stato impossibile arrivare ad un Avviso comune, si poteva anche non intervenire affatto, in quanto la normativa italiana era già stata considerata coerente con la Direttiva anche dalla Corte Costituzionale, che aveva addotto questa motivazione per dichiarare inammissibile il referendum abrogativo in merito, proposto dai Radicali.
Quali erano le posizioni dei sindacati, all’inizio delle trattative, per riformare il lavoro a tempo determinato?
Queste nostre valutazioni non furono esplicitamente contrastate dagli altri sindacati. La trattativa si sviluppò inizialmente senza particolari tensioni. Cominciammo a lavorare sulle definizioni delle causali, per la razionalizzazione delle stesse. Come detto sopra, si poteva compiere un’opera di razionalizzazione che di per sé non liberalizzava più di quanto fosse già nei fatti. Ovviamente a condizione che fosse confermato il rinvio alla contrattazione collettiva come passaggio vincolante per rendere effettive le causali sulla base dei principi fissati in legge e alla luce delle specificità settoriali.
Peraltro, questo metodo era stato già praticato per definire nel “Pacchetto Treu” le causali per l’interinale, ed era stato condiviso da tutte le parti in causa. Dunque, si potevano prevedere nella legge causali molto generiche, tali da accorpare quelle molto specifiche previste nei contratti, ma si doveva confermare il vincolo della contrattazione collettiva di settore per renderle esigibili.
Un altro punto affrontato era quello dei tetti quantitativi. Anche qui, sulla scorta dell’esperienza fatta sul lavoro interinale, l’intento era quello di indicare, perlomeno come volontà delle parti, un rinvio esplicito alla contrattazione collettiva. Valutammo ai tavoli se la fissazione dei tetti potesse essere l’occasione per poter riproporre una questione che già avevamo discusso con le controparti imprenditoriali, ma sulla quale non avevamo trovato il loro consenso, quando ne parlammo per il lavoro interinale. Vale a dire la possibilità di individuare un tetto complessivo per le forme contrattuali a termine di vario tipo, oppure se la questione del tetto si dovesse affrontare solo con riferimento al contratto di lavoro a termine. Noi come sindacato, avremmo preferito che si potesse pattuire tra le parti un tetto complessivo, che avrebbe compreso l’interinale, l’apprendistato, il contratto a termine. Le parti datoriali rifiutarono.
Su questi aspetti, seppur con molta lentezza, la trattativa si evolse senza ostacoli insormontabili.
Su quali aspetti si manifestarono le prime divergenze?
Dopo una prima fase di lavoro svolto come fin qui detto, si svelò l’ambiguità con cui avevano proceduto le parti datoriali. Infatti, sulla formulazione generale da porre in legge, individuammo un testo, su cui esprimemmo un primo consenso di massima anche noi, nel convincimento che fosse confermato il rinvio alla contrattazione collettiva sia per le causali specifiche che per i tetti, senza che mai alcuno, al tavolo di trattativa, avesse negato esplicitamente ciò.
Ma quando le associazioni imprenditoriali ci proposero la stesura dell’accordo, che doveva considerarsi definitiva alla luce degli affidamenti che avevamo maturato nella trattativa, ci proposero anche una lettera d’accompagnamento da inviare al Governo, nella quale le parti avrebbero dovuto sottoscrivere, unitariamente, che consideravano superato il vincolo del rinvio alla contrattazione, soprattutto per le causali, nonché la norma di legge che prevedeva il diritto di precedenza per gli stagionali. Si rivelava dunque, l’intento di perseguire una pura e semplice liberalizzazione dell’istituto, in plateale contraddizione con la Direttiva comunitaria, infrangendo la clausola del non regresso.
Perché Cisl e Uil accettarono questa liberalizzazione del contratto a termine, accusando la Cgil di rimangiarsi improvvisamente le sue posizioni iniziali?
A inizio 2001, in vista di nuove elezioni, eravamo già in un contesto di relazioni fra i sindacati, le associazioni imprenditoriali e la politica, molto deteriorato, in cui la Cgil era ormai considerata un soggetto eccentrico rispetto a tutti gli altri. Noi eravamo già allora definiti, sui quotidiani e dai media, come il sindacato conservatore. Cofferati era considerato il Signor No. Anche parte della sinistra politica polemizzava aspramente con la Cgil. In quel contesto, l’operazione di compattamento delle associazioni imprenditoriali con la destra che si stava organizzando per il governo del Paese, era molto esplicito e molto evidente. L’elezione di D’Amato a capo di Confindustria favorì tutto questo, confluito poi nel patto esplicito di collateralismo della Confindustria, prima delle elezioni, con Berlusconi.
Una parte del sindacato, si rese disponibile ad affrontare una nuova fase del rapporto tra le forze sociali e la politica. Io penso che ci fu, in molte forze sociali, un errore di analisi di ciò che si stava delineando e che questo errore indebolì l’autonomia di quelle forze sociali; ma questo è un problema più ampio, da affrontare in altra sede.
Soprattutto la Cisl si limitò ad enfatizzare, ad ideologizzare la pratica concertativa fra le parti, anche aldilà del merito in discussione. In quel periodo vi furono polemiche, che riportarono anche le prime pagine dei giornali, tra la Cgil e la Cisl, sul fatto se la concertazione dovesse essere considerata un metodo o una politica in sé. Questo era il clima, che favoriva, indubbiamente, il progressivo deterioramento del rapporto fra le parti. Da lì dunque, partì un avvicinamento progressivo della Cisl alla aggregazione che si stava costruendo nel centrodestra. Quelle posizioni erano molto forti in Cisl in quel momento, erano maggioritarie, e coinvolgevano in maniera militante alcuni dei suoi massimi dirigenti. Una parte del gruppo dirigente Cisl, io credo, dimostrò un grado insufficiente di autonomia rispetto al nuovo quadro politico, così esplicitamente condizionato dalle forze allora prevalenti in Confindustria. Mi pare si possa dire oggi, con serenità che pesò molto la diversa analisi sul significato e sulle conseguenze sociali, oltre che politiche, che si sarebbero generate da quell’inedito collateralismo fra la destra politica e la parte preponderante delle organizzazioni imprenditoriali In questo clima ci fu un tentativo esplicito di isolamento della Cgil. Anche a prescindere dalla trattativa sul contratto a termine, era già avviata la pratica di accordi informali con le controparti, senza la Cgil.
Anche per questo dunque, la Cgil non proseguì le trattative dopo la richiesta di una proroga da parte di Cisl, Uil e Confindustria al Governo per cercare un accordo?
Vi erano ormai diverse posizioni che non erano mediabili. Da parte nostra era inutile proseguire le trattative su quelle basi. Davanti alle ipotesi di liberalizzazione dei contratti a termine, tornammo alla posizione originaria: cioè non eravamo costretti dalla Direttiva a intervenire per forza, anche perché l’assetto delineatosi attraverso un mix di leggi e contratti, era sì poco razionale, ma non certo in contrasto con i principi della stessa Direttiva. Le parti datoriali confermarono di essere disponibili a ulteriori approfondimenti esclusivamente su alcune modifiche di dettaglio proposte da Cisl e Uil, e di non avere alcuna altra disponibilità sui temi proposti coerentemente dalla Cgil. Era naufragato il tentativo di modernizzazione attraverso un processo condiviso da parte delle forze sociali. Noi ribadimmo la nostra disponibilità a trasformare le voci dei singoli contratti in una voce generale, in un “causalone”, sempre però che si fosse mantenuto il rinvio alla contrattazione collettiva.
La Cgil si aspettava a quel punto, dopo la rottura in marzo, un intervento unilaterale da parte del Governo visto che non vi era un Avviso comune?
Eravamo a fine legislatura e il Ministro del Lavoro di allora, Cesare Salvi, non se la sentì di compiere atti destinati a creare divisioni. Fu considerato, da parte del Governo, inopportuno intervenire unilateralmente. A mio avviso fu una scelta opinabile, poiché il punto di dissenso (il ruolo da affidare alla contrattazione collettiva, ndr) non era una questione a sé stante, un punto qualunque di una trattativa complessa, ma era una questione che, fino a quel momento, aveva riguardato tutto il sistema di relazioni sulle materie riguardanti la flessibilità del lavoro. Forse questa valenza generale avrebbe meritato un intervento del Governo, pur se a fine legislatura.
Poi intervenne sulla materia subito il nuovo Governo appena eletto…
Sulle politiche del lavoro il nuovo Governo annunciò subito quelle linee programmatiche che poi avrebbero condotto fino alla legge 30. Quello sui contratti a termine fu il primo strappo esplicito che andava in quella direzione. Il d.lgs n. 368 riprese interamente la stesura di Cisl, Uil e Confindustria, anche nella sue formulazioni letterali.
Alcune associazioni imprenditoriali, come Confcommercio, non firmarono l’accordo. Possono cogliersi fra le imprese delle differenziazioni di atteggiamento nel corso della trattativa?
Avevamo raggiunto un’ ipotesi d’accordo con Confapi, l’associazione delle piccole e medie industrie. Era una pre-intesa per noi difficile da condividere, ma che tuttavia proponemmo nel corso delle trattative, siccome la rottura non era ancora stata consumata, come un estremo tentativo per tenere assieme le parti. Ma ormai le condizioni erano svanite.
Confcommercio è nostra controparte in tutti i contratti del terziario privato, che è, più di altri settori, soggetto alla frantumazione delle attività lavorative, e dunque caratterizzato da maggiori problemi nella regolazione del lavoro. Per questo anche la parte imprenditoriale sa, per esperienza, che l’effettivo esercizio della contrattazione fra le parti è il modo migliore per risolvere questi problemi. Confcommercio infatti, differenziò la propria posizione da quella delle altre associazioni imprenditoriali. Fu, da parte loro, un atteggiamento laico e trasparente, mentre Confindustria cercò di portare avanti la propria battaglia di sfondamento per la liberalizzazione.
Le altre associazioni imprenditoriali furono assolutamente subalterne e lasciarono opportunisticamente campo libero alla leadership, allora trionfante, di Confindustria.
Perché vi fu l’abbandono, da parte delle forze sociali, di questa gestione negoziale della flessibilità?
Avevamo tutti alle spalle le prime riforme introdotte con il “Pacchetto Treu”, opinabile in alcuni contenuti, ma complessivamente si era avviato un percorso di modernizzazione e di flessibilizzazione positivo e partecipato. Al nostro interno dapprima ci furono resistenze nell’intraprendere quel percorso che avrebbe richiesto alle nostre strutture, alle nostre categorie, uno sforzo d’innovazione anche nei modi di contrattare e che avrebbe creato un po’ di sofferenza. Tuttavia, era un processo negoziato, che offriva spazi concreti alla contrattazione collettiva. Si interpretava il rapporto legge-contrattazione in una maniera meno stratificata ed ossificata rispetto al passato, in modo più flessibile e dinamico richiedendo uno sforzo in più alla contrattazione. E ciò riguardava anche la contrattazione articolata. Un processo non privo di difficoltà, soprattutto per le nostre strutture, ma sostenibile e giusto. La Cgil lo visse con intensità, ma anche con convinzione.
Vi era dunque, un’esigenza di innovare alcune parti del quadro normativo, valorizzando e rinnovando la pratica contrattuale. Quella era la logica in cui ci si era mossi. Che le associazioni imprenditoriali fossero per la flessibilità tout-court lo si sapeva, ma fino a quel momento, ci si era mossi insieme sul come governarla, attraverso un confronto che non si era interrotto e aveva anche prodotto buoni frutti.
Dunque la Cgil non era affatto contraria alle pratiche di concertazione…
Assolutamente no. Avevamo firmato il Protocollo del 1993, ma voglio ricordare soprattutto l’accordo del 1996, il Patto per il lavoro, spesso un po’ trascurato, ma che fu di gran rilievo poiché si individuavano, almeno in via di principio, i terreni cui metter mano per avviare percorsi d’innovazione partecipati su molte questioni: la formazione continua, il mercato del lavoro, l’interinale, la ricerca, la programmazione negoziata, i contratti d’area. Si individuavano dei percorsi di modernizzazione attraverso l’effettiva partecipazione delle parti, con un riconoscimento di esercizio di poteri anche al sindacato. Poi, troppo rapidamente, cambiò il clima politico; già nella seconda metà della legislatura scorsa, durante i governi succeduti a quello presieduto da Prodi, si deteriorò progressivamente il rapporto fra le parti sociali e prese corpo un disegno di isolamento della Cgil. I segni di ciò furono molti, alcuni apparentemente di scarso rilievo, tuttavia significativi: ad esempio, quello del sovraffollamento ai tavoli di concertazione. In realtà era sintomo di una svalorizzazione delle posizioni portate avanti dalle parti sociali e di una lettura semplicista e politicista da parte della classe politica. Quando si convocano attorno allo stesso tavolo svariate decine di organizzazioni sociali, molte delle quali portatrici di una rappresentanza irreale irrisoria e irrilevante, è evidente che, anche se si fa ricorso al termine di concertazione, in realtà si è di fronte ad una finzione, ad un’umiliante parodia della concertazione.
E ciò avvenne sempre più frequentemente. Nel frattempo affilavano le armi coloro che del superamento esplicito della concertazione avrebbero fatto la bandiera ideologica e, da lì a qualche tempo, vincente.

























