Schadenfreude è una parola tedesca, che ha avuto molta fortuna al di là dell’Atlantico e che, sostanzialmente, significa godere delle disgrazie altrui. Difficile non caderci, davanti alle contorsioni e alle collisioni di cui sono protagonisti la maggioranza di destra e il governo Meloni, impiombati nel pasticcio del Mes, ovvero nella ratifica di quel Fondo SalvaStati europeo al cui appello manca solo l’Italia. Non mancano momenti di sincera ilarità, come quando dalla maggioranza si fa notare che il via libera alla ratifica è arrivato con la firma “di un tecnico” e non del ministro in carica dell’Economia, come se il capo di gabinetto (non uno di passaggio, ma il braccio destro del ministro) potesse inviare al Parlamento una calorosa sponsorizzazione di uno strumento, da sempre al centro di roventi polemiche, all’insaputa del suddetto ministro Giorgetti. Ci sono anche momenti di autocompiacimento, come quando uno ricorda di aver sempre detto che Giancarlo Giorgetti è la testa più lucida e il politico più preparato dell’intera compagine di governo ed era inevitabile che, fatto un giro in Europa e capito che aria tira, si decidesse a chiudere nell’unico modo possibile (un Sì) la questione. E, infine, dopo aver inseguito la sinistra nella serie di vicoli ciechi in cui continua a cacciarsi, si può prender nota che quegli inciampi, tutto sommato, sbiadiscono davanti a quelli che sa scegliersi la destra.
Questo del Mes è, infatti, un clamoroso caso di qualcuno che, cavalcando senza scrupoli una propaganda strumentale, ne viene alla fine travolto, insieme ai mezzi e mezzucci messi in campo per evitare il testa-coda. Tuttavia, la Schadenfreude è un sentimento poco raccomandabile e non porta lontano. Il punto è che la vicenda è sconfortante e il dilettantismo mostrato dal governo Meloni parla male della destra, ma compromette anche i rapporti e il potere contrattuale dell’Italia in Europa. Destra o no, ci siamo fatti del male: avere un governo che si mostra incompetente non aiuta in generale il paese, punto. Eppure, anche a Giorgia Meloni non deve essere sfuggito che un trattato approvato da 19 paesi (Italia, a suo tempo, compresa) e già ratificato da 18 non era più modificabile. E, se non a lei, ai suoi consiglieri diplomatici doveva essere chiaro che il tentativo disperato di vendere l’inevitabile ratifica italiana, in cambio di modifiche – in termini di maggiore flessibilità – al futuro Patto di stabilità che dovrà governare i debiti dei paesi dell’eurozona, era un espediente privo di margini di successo in una situazione in cui, su quel Patto, si sta già consumando uno scontro durissimo fra la Commissione e un largo schieramento di paesi, guidato dalla Germania, sostenitore di vincoli stringenti.
Insomma, possiamo cominciare a contare i danni che ci porteranno ad una scontata ratifica del Mes. Fra questi, non c’è lo stesso Mes. Presentato dalla propaganda della Lega (ma anche – e questo non ha aiutato la Meloni – dei 5Stelle) come un diabolico strumento che consegnerebbe l’Italia al commissariamento da parte di diffidenti troike internazionali e renderebbe inevitabile una bancarotta del Tesoro, il Fondo SalvaStati è uno strumento non perfetto, ma, in buona sostanza, un esercizio di realismo.
Il Trattato che crea il Fondo – alimentato con i soldi versati dai singoli paesi, l’Italia ci ha già messo una quindicina di miliardi – ha tre obiettivi. Il primo è rafforzare il sistema bancario europeo (tema non trascurabile in questo momento di sommovimenti bancari), creando un tesoretto a cui si può ricorrere se, davanti ad una crisi bancaria, non bastassero i fondi a disposizione delle singole autorità nazionali. Il secondo è snellire le procedure per la ristrutturazione del debito pubblico di un paese.
Che vuol dire? Un paese che non ce la fa a far fronte ai suoi debiti (pensiamo alla Grecia o all’Argentina) può chiedere ai suoi creditori di accontentarsi del 60 per cento dei debiti, invece di rivendicare, per forza, il 100 per cento. Per un paese, può voler dire alleggerire il peso dei debiti e voltar pagina, per i creditori incassare comunque qualcosa in fretta, piuttosto che rimanere con solo un pezzo di carta in mano. Ma, oggi, perché questa ristrutturazione si realizzi, bisogna che i creditori votino su ogni singolo titolo o emissione: se qualcuno riesce a bloccare il voto su un titolo, si blocca tutto. Il Trattato prevede, invece, che i creditori votino tutti insieme sull’intero ammontare di titoli da scontare.
Secondo i critici, rendendo più facile questo passaggio, si rende più percorribile la strada di imporre ad un paese – lo voglia o no – di ristrutturare il suo debito. In termini semplici, di imporre eventualmente un default all’Italia. E, concludono i critici, default più facile, debito più caro. Vero il contrario, ribatte il documento del Tesoro appena contestato in Parlamento: default più facile vuol dire per i creditori rientrare più in fretta in possesso di almeno parte dei propri fondi, quindi debito meno caro.
Ma il punto scottante è il terzo: come e quando interviene il Fondo a salvare uno Stato in crisi. Quali garanzie deve fornire il paese per ottenere i fondi del salvataggio? Si badi che, su questo terreno, il Mes non è l’unico mezzo di intervento in circolazione. Ce ne sono almeno altri due e le differenze con il Mes – in particolare in tema di garanzie e impegni da parte del paese in crisi – sono modeste, a conferma della miope strumentalità con cui la propaganda di destra si è accanita contro il Fondo SalvaStati, facendo finta che gli altri due non esistessero.
Il primo veicolo è il Patto di Stabilità in discussione, in queste settimane a Bruxelles. Un paese con un debito pubblico eccessivo deve concordare un percorso di rientro con la Commissione Ue. La Germania chiede che questo avvenga dentro paletti riconoscibili (ovvero vincoli sul minimo di debito da sanare). La differenza (sottile, a ben vedere) con il Mes è che il Patto considera situazioni ordinarie e non emergenze, ma sempre di fornire garanzie e impegni si tratta e queste garanzie e questi impegni sono poi sempre gli stessi. Il secondo veicolo già esistente, al di fuori di qualsiasi contestazione in Italia, è il Tpi, ovvero il programma con cui la Bce si impegna ad intervenire sui mercati a tamponare crisi di fiducia nei titoli di un singolo paese: il bazooka di Francoforte. Ma anche questo programma è subordinato alle garanzie e agli impegni che il governo salvato sottoscrive, in accordo con la Commissione Ue. Nei fatti, insomma, il Tpi della Bce concerne le emergenze, ma replica le procedure in vista per il Patto di Stabilità. E, in sostanza, la stessa cosa si può dire del Mes.
E, allora, qual’è la differenza fra il Mes e gli altri due veicoli? Che il Mes non è uno strumento comunitario, ma intergovernativo. Mentre il Tpi della Bce e il Patto della Commissione prevedono interventi da parte di istituzioni autonome, nel caso degli interventi del Mes, sia pure in coordinamento con Bce e Commissione, sarebbero chiamati a votare i singoli governi. Per salvare (eventualmente) l’Italia occorrerebbe il Sì, pubblico ed esplicito, di Berlino.
Ma è davvero una differenza? Qualcuno pensa che, nel caso di accordi dell’Italia con Bruxelles nel Patto o con Francoforte per il Tpi, Berlino, Parigi, L’Aja si asterrebbero dal far sentire la propria voce e pesare sulla bilancia, non necessariamente con discrezione? E qualcuno pensa che, in caso di crisi terminale, ove qualche capitale ritenesse inevitabile un default italiano, si asterrebbe da porre l’ipotesi sul tavolo, perché la ristrutturazione del debito non è esplicitamente prevista nei negoziati del Patto di Stabilità o nella cassetta degli attrezzi del Tpi della Bce? Sembra realisticamente assai improbabile.
Maurizio Ricci