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Home - Approfondimenti - La nota - La formula di Visco: Europa, lavoro e innovazione

La formula di Visco: Europa, lavoro e innovazione

31 Maggio 2017
in La nota
La formula di Visco: Europa, lavoro e innovazione

“La questione del lavoro è centrale”: sei parole, pubblicate a pag. 15, in cui si riassume uno degli aspetti principali, quello destinato a restare nella memoria, delle Considerazioni finali svolte oggi, a Roma, dal Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in occasione della presentazione della sua Relazione annuale. Lavoro, dunque, e, come vedremo, innovazione.

Visco è uomo di solida cultura economica, capace di esprimere, attraverso il tempo, un pensiero che segue alcune line coerenti di analisi e di proposta.  Come l’anno scorso, Visco ha innanzitutto dato un taglio fortemente ed esplicitamente europeista al suo discorso odierno. Sarebbe “un’illusione”,  ha detto, pensare che “la soluzione dei problemi economici nazionali possa essere più facile fuori dall’Unione economica e monetaria” (pag. 24). E, come già negli anni passati, ha preso una posizione di netto sostegno alla politica di quantitative easing portata avanti dal Governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, oggi seduto in prima fila mentre Visco teneva il suo discorso nel salone posto al secondo piano di palazzo Koch.

“La politica monetaria – ha infatti detto Visco – ha fatto ciò che era necessario (…), mirando a garantire, con il sostegno alla domanda, il mantenimento della stabilità dei prezzi” e “continuerà a farlo nei modi e nei tempi appropriati”. E ha poi osservato che “si discute spesso, non sempre con il necessario approfondimento analitico, del momento in cui si uscirà dall’attuale fase fortemente espansiva. Se ne parla a volte per richiedere un’accelerazione forzata, altre volte agitando, al contrario, lo spettro di possibili conseguenze drammatiche”. Ma, ecco il punto, “quando la decisione sarà presa vorrà dire che”, nell’area dell’euro, “si saranno ristabilite le condizioni di domanda aggregata e dei prezzi alle quali miriamo”.

Quindi sostegno, o meglio facilitazione, per via monetaria, della domanda aggregata e lotta contro la deflazione. Anche questi due aspetti – che fanno parte di un’unica linea di pensiero di derivazione, almeno in parte, keynesiana – già presenti nelle Considerazioni finali degli anni scorsi.

Ciò non significa, tuttavia, che nel suo discorso Visco si sia appiattito in una valutazione aprioristicamente positiva di tutto ciò che è proprio dell’Unione europea. Al contrario, il Governatore ha ricordato che “anche noi, a volte, critichiamo regole europee di cui non siamo completamente soddisfatti o scelte di autorità europee che non condividiamo”. Ma se ciò viene fatto non è “per mettere in discussione il cammino dell’Europa”. Al contrario. Il punto è che “l’incompletezza” della costruzione europea ha dato luogo a un’Unione che, talvolta, è risultata “più forte nel proibire che nel fare”. Ne risulta che “il vero compimento della costruzione” europea avverrà “solo con lo sviluppo di istituzioni designate democraticamente a gestire la sovranità comune”.

Un altro leit motiv dei ragionamenti vischiani è la critica all’insufficienza degli investimenti pubblici, avanzata già nelle Considerazioni finali del maggio 2014. Ma è notevole che questo tema torni oggi, ovvero nell’ambito di un discorso molto attento a sottolineare l’esigenza, e la possibilità, di avviare “un programma di riduzione del debito pubblico” (pag. 23).

Ebbene, parallelamente a questo programma, secondo Visco la spesa per gli investimenti pubblici, che è “in calo dal 2010”, deve “tornare a crescere”. Nel 2016, nel nostro Paese, l’incidenza di tale spesa sul prodotto interno lordo è stata “appena superiore al 2 per cento”, ovvero pari a circa un punto in meno di quanto accadeva negli anni precedenti alla crisi, nonché collocata a uno dei livelli più bassi nell’area dell’euro. Per Visco, quindi, un “aumento delle risorse dedicate alla ristrutturazione del patrimonio immobiliare esistente (…), e alla prevenzione dei rischi idrogeologici, oltre che al contenimento delle conseguenze di quelli sismici, avrebbe effetti importanti sull’occupazione e sull’attività economica, in misura più accentuata nel Centro-Sud” (pag. 17).

E qui siamo già nel cuore delle Considerazioni finali di quest’anno, ovvero nel paragrafo intitolato, appunto, Lavoro e crescita (pagg. 15-18). Dopo un’analisi, rapida ma densa (pagg. 7-9), di ciò che è accaduto negli anni dominati da quelle che Visco considera due diverse e successive crisi economiche – quella “finanziaria globale”, avviatasi nel 2007, e quella dei “debiti sovrani”, avviatasi nell’area dell’euro nel 2010 -, si arriva all’affermazione secondo cui “è soprattutto nel mercato del lavoro che vediamo l’eredità più dolorosa della crisi”.

Nel 2014, ricorda Visco, il “tasso di disoccupazione è stato pari a quasi il 13 per cento, più del doppio che nel 2007”. Per ciò che riguarda i più giovani, ovvero le persone collocate fra i 15 e i 24 anni, tale tasso risultava raddoppiato, passando dal 20 al 40 per cento.

Fra il 2015 e il 2016, osserva ancora il Governatore, “si sono registrati miglioramenti, grazie alla ripresa ciclica, agli sgravi contributivi e ai provvedimenti volti a migliorare l’efficienza del mercato del lavoro”. Tuttavia, “alla fine del 2016 meno del 60 per cento delle persone tra i 20 e i 67 anni aveva un impiego”, mentre risultava occupata “appena una donna su due”. Inoltre, tra i giovani con meno di 30 anni, circa un quarto (un terzo nel Mezzogiorno), “non aveva un lavoro né era impegnato in un percorso formativo”. Una situazione evidentemente negativa, aggravata dal fatto che questi valori “sono lontani da quelli di gran parte degli altri paesi europei”.

Ma la crisi del mercato del lavoro, fotografata da Visco, non ha solo una, sia pur grave, dimensione quantitativa. Infatti, il Governatore sottolinea che “si è ampliato il divario tra la qualità degli impieghi offerti e le aspirazioni dei lavoratori: la quasi totalità degli occupati dipendenti a termine vorrebbe un contratto di lavoro permanente”, mentre “due terzi dei lavoratori a tempo parziale desidererebbero un impiego a tempo pieno, contro il 40 per cento di dieci anni fa”.

Qui il ragionamento di Visco si allarga oltre i confini dell’analisi strettamente economica: “La questione del lavoro è centrale” perché “riguarda l’integrazione sociale e la stessa identità personale”. Ma, anche da un punto di vista economico, la insoddisfacente condizione del mercato del lavoro nel nostro paese “non va vista solo come un problema congiunturale”. Infatti, “il potenziale di crescita dell’economia dipende dalla quantità e dalla qualità della forza lavoro e dalla capacità del sistema produttivo di darle un impiego adeguato”.

Che fare, dunque, per uscire dalle secche di questa condizione che ci sentiremmo di definire come di sottoccupazione? Nelle Considerazioni finali del maggio 2015, Visco aveva mostrato di apprezzare la politica di riforme relativa al mercato del lavoro avviata dal Governo guidato da Matteo Renzi, né pare che adesso abbia cambiato idea. Solo che adesso quella che viene in primo piano è la questione della produttività. “Il sistema economico italiano, molta parte del quale è in grave ritardo nell’adozione delle nuove tecnologie, soffre da ben prima della crisi – sottolinea Visco – di una dinamica della produttività totale dei fattori troppo lenta. Salita in media di appena lo 0,2 per cento all’anno tra il 1995 e il 2007”, ovvero di “circa un quarto del ritmo stimato per Francia e Germania”, negli anni più recenti “ha recuperato solo in piccola parte l’accentuata flessione subita durante la crisi”.

Ebbene, “colmare questo ritardo e partecipare alla rivoluzione digitale in atto è necessario per evitare effetti negativi sugli standard di vita degli italiani”.

Ora Visco non si nasconde che “c’è chi prevede che dal progresso tecnologico possa derivare una forte riduzione dei posti di lavoro”, mentre altri ritengono che “la creazione di nuove occupazioni compenserà la perdita di quelle soppiantate dalle macchine”, così come “è avvenuto finora nella storia”. Onestamente, ammette che “valutare questi effetti è difficile”, e che, comunque, “l’economia italiana appare vulnerabile ai processi di automazione”. Infatti, “secondo recenti stime dell’Ocse, il rischio è molto alto per un decimo delle occupazioni”, mentre “può interessarne con probabilità elevata fino alla metà”.

Tuttavia, secondo Visco “non vi sono alternative alla crescita dell’efficienza produttiva, della capacità gestionale e amministrativa: solo l’innovazione nella produzione di beni e servizi è in grado di assicurare, allo stesso tempo, aumento dei redditi e più elevata occupazione, in quantità e qualità”.

Ed è qui che i due temi, innovazione e lavoro, si fondono in un unico ragionamento. In passato, scrive Visco, “si è tentato di far fronte ai mutamenti con la sola riduzione dei costi, in particolare del lavoro”. Ma i “pur significativi benefici in termini di occupazione” si sono rivelati “effimeri perché non sono stati accompagnati dal necessario cambiamento strutturale di molte parti del nostro sistema produttivo”. Ebbene, “affinché un’offerta di lavoro più ampia e più qualificata possa trovare pieno utilizzo in impieghi che soddisfino le legittime aspettative delle nuove generazioni, occorre un salto di qualità che consenta di favorire l’innovazione e migliorare i meccanismi che guidano l’allocazione delle risorse”.

E con un afflato conclusivo il Governatore afferma: “E’ necessario, a tal fine, il concorso convinto di tutti: imprenditori, lavoratori, amministratori pubblici”.

Un’ultima osservazione. Nelle Considerazioni finali del maggio 2014, Visco aveva osservato che il livello degli investimenti privati era insoddisfacente. Adesso, pur continuando a denunciare la permanenza di “ampi margini” di capacita produttiva “inutilizzata”, può permettersi il lusso di notare che si sta verificando una “ripresa degli investimenti privati”. In particolare, secondo il Governatore “stanno soprattutto aumentando gli acquisti di beni strumentali che hanno un impatto diretto sul potenziale produttivo dell’economia”. Tali acquisti, infatti, sarebbero saliti, nel 2016, “di quasi il 5 per cento”, anche se rimangono ancora inferiori del 14 per cento” ai livelli, pre-crisi, del 2007.

Insomma, il ritardo del nostro sistema produttivo è ancora forte, ma c’è qualche segnale che, almeno in parte, è stata imboccata una direzione giusta. Specie, aggiungiamo noi, con sgravi fiscali come quelli relativi al cosiddetto superammortamento o con leggi come quella sulla cosiddetta Industria 4.0. Ma, evidentemente, rimane ancora molto da fare.

 

@Fernando_Liuzzi

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