Lo ammetto: mi sono sbagliato. Avevo creduto che l’esperienza della pandemia, la necessità di condividere i suoi rischi, la consapevolezza di una morte incombente e solitaria, da cui ciascuno poteva essere colpito a tradimento, avrebbe tirato fuori la parte migliore di noi. Mi ero illuso che noi, anzitutto noi italiani, di fronte allo sconvolgimento delle rispettive abitudini avremmo assunto comportamenti maturi e responsabili, e avremmo operato quel cambio di mentalità che le emergenze sempre richiedono. Avevo pensato che la costante minaccia del COVID-19 sarebbe stata, per tutti, un’opportunità di cambiare rotta.
A quanto pare non è ciò che sta avvenendo. In molti casi ci comportiamo – e dunque veniamo trattati – come bambini. Lo ha sottolineato giustamente qualche giorno fa Tommaso Nutarelli.
Mi spiego meglio. Non sto parlando di ciò che tante persone hanno fatto e stanno facendo, ciascuno impegnato nella risposta a una situazione eccezionale con tutte le forze e le competenze di cui dispone. Se anche queste persone abbiamo smesso di chiamarle “eroi” e di farne l’oggetto di una stucchevole retorica, non per questo la loro opera non è il segno di una testimonianza vera, quotidiana, che va seriamente presa a modello. Mi riferisco invece al fatto che la pandemia avrebbe potuto incidere significativamente sui nostri comportamenti collettivi, indirizzarli verso un’effettiva solidarietà, farci diventare cittadini migliori e, più in generale, migliori esseri umani. Per attuare questo, il cambio di mentalità dev’essere reale. Ma non c’è stato.
Vado nel concreto. Voglio considerare meglio la situazione del nostro paese. A dispetto di tanti comportamenti eccezionali degli individui, a cui ho accennato, in Italia quel “popolo”, al quale pure alcune forze politiche continuano a richiamarsi, ha dimostrato una volta di più di non esistere. Infatti, la solidarietà manifestata nelle settimane iniziali del primo lockdown – le bandiere alle finestre, il ripeterci che ce la faremo, le sollecitazioni al reciproco aiuto – già quest’estate aveva lasciato il campo a un “liberi tutti”, motivato dalla rivendicazione di diritti particolari: quelli a riprendere la propria vita come se nulla fosse stato, a divertirsi, a tornare a lavorare comunque, anche a costo di trascurare le norme di sicurezza. E pazienza, come qualcuno ha avuto l’impudenza di dire, se in conseguenza di ciò vi sono dei morti.
Nell’autunno, come ben sappiamo, la situazione è peggiorata. Non mi riferisco solo ai contagi e alle morti, ancora troppe, o al lavoro che viene a mancare per un numero sempre maggiore di persone, senza che se ne parli più di tanto. Mi riferisco anche al modo in cui affrontiamo la situazione collettivamente. Mi riferisco alla mentalità condivisa con la quale stiamo affrontando il ripresentarsi di problemi ben lontani dall’essere superati. C’è stanchezza, sfiducia, paura. Ecco lo stato d’animo con cui ci apprestiamo a celebrare questo Natale. Lo percepiamo ovunque. Non basta la prospettiva del vaccino – su cui peraltro cominciano a riproporsi i vecchi, assurdi dubbi dei no-vax – a ridare speranza. Sta imponendosi infatti una sensazione d’impotenza: l’idea che, tanto, non riusciremo a salvarci tutti e, dunque, ciascuno deve fare per sé. Si salvi chi può.
Questo atteggiamento non è certo una novità. La storia italiana c’insegna che – a differenza di altri paesi, nel bene e nel male – proprio non riusciamo a essere davvero una comunità. I motivi possono essere molti, e sarebbe troppo lungo indagarli. Ci basti segnalare il fatto che, anche per questo motivo, ritornano e si consolidano vecchie abitudini. Rimangono le spinte corporative del passato, di nuovo incapaci di trovare una sintesi. Si ripresentano i conflitti fra le varie categorie di lavoratori e fra le diverse parti sociali, favorite magari da questa o da quella forza politica, a discapito però di uno sviluppo dell’intero sistema. Nascono nuove esigenze espresse da gruppi più o meno organizzati, che però all’epoca dei Social – nella quale si può soltanto dire di qualcosa che mi piace oppure che non mi piace – vengono rivendicate quasi sempre in contrapposizione a differenti esigenze, che sono altri ad esprimere. La mediazione è sempre più merce sconosciuta. L’autonomia, da parola simbolo della modernità, si è trasformata nella giustificazione dei rispettivi egoismi.
In questa situazione, certo, non è facile governare. Ma ciò a cui assistiamo è un atteggiamento per molti versi ambiguo. Da una parte il governo ci tratta, ripeto, come i bambini che in molti casi dimostriamo di essere. Magari s’impone in maniera irragionevole, magari esagera, suscitando reazioni altrettanto immature, permeate da un vago carattere libertario. Dall’altra parte esso vive alla giornata, perché non riesce a superare i particolarismi delle sue varie componenti, e per resistere deve prendere tempo, ma per prendere tempo deve moltiplicare i luoghi di condivisione del potere e ampliare i centri decisionali, i quali però sono destinati – già lo stiamo vedendo – a confliggere e a smentirsi quotidianamente l’uno con l’altro. Si tratta d’altronde di comportamenti che non stupiscono. Altro non sono, infatti, che lo specchio di ciò che già noi cittadini siamo e facciamo: proprio noi che abbiamo scelto, come nostri rappresentanti, i parlamentari che hanno formato questo governo. La pandemia, così, diventa un alibi: l’alibi per rimandare le decisioni necessarie, nascondendosi dietro la durezza di un decisionismo di facciata.
Gli antichi Greci avevano un detto, preso da una tragedia di Eschilo. Gli esseri umani sono coloro che imparano dalla sofferenza. Sono in grado di farlo. È questo un modo per dare senso alla sofferenza stessa, per fare in modo di rimediare a quegli aspetti di gratuità e d’inutilità che ogni dolore porta con sé. Possiamo dunque imparare qualcosa dalla pandemia? Siamo in grado di non rendere inutili le sofferenze che stiamo tutti vivendo, e alcuni in maniera davvero insopportabile?
L’unico modo per farlo è quello di cambiare rotta. Ma per cambiare rotta, come dicevo, bisogna cambiare mentalità. Dobbiamo fare in modo che la paura e la sofferenza non ci rinchiudano ancor di più in noi stessi, dando il via a sempre nuove rivendicazioni e conflitti. Dobbiamo far sì, invece, che esse ci aprano alla necessità di conciliare le nostre esigenze con quelle degli altri. Solo insieme possiamo salvare. Non è un semplice slogan: è l’unica, reale via d’uscita.
Adriano Fabris