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Home - Approfondimenti - Analisi - La solitudine di Tria e la lezione di Einaudi

La solitudine di Tria e la lezione di Einaudi

di Marco Cianca
27 Settembre 2018
in Analisi
La solitudine di Tria e la lezione di Einaudi

“Ho giurato nell’esclusivo interesse della nazione, non di altri”, rivendica solitario Giovanni Tria, adombrando una possibile uscita di scena. Il ministro dell’Economia, assediato e minacciato, ammonisce Luigi Di Maio e Matteo Salvini ricordando che esiste un bene superiore agli interessi di partito e che i vincoli economici non sono un capriccio. La sua affermazione non è solo uno scatto di orgoglio, che gli conferisce una dignità che molti membri di questo governo sembrano aver dimenticato, ma si ricollega alla concezione dello Stato sorto dopo il crollo del Fascismo e che dovrebbe essere il faro di ogni decisione politica.

Principi di autonomia e di indipendenza per i responsabili dei conti pubblici che pochi (forse il solo precedente è quello di Silvio Berlusconi) hanno osato mettere in discussione in modo così arrogante. Che avrebbe detto un grande predecessore di Tria come Carlo Azeglio Ciampi? Ma anche i primi due ministri delle Finanze dell’Italia Unita, Saverio Vegezzi e il conte Piero Bastogi (si succedettero per pochi mesi durante il primo governo Cavour) avevano un concetto del loro ruolo superiore a quello degli attuali, sedicenti, tribuni del popolo. Quintino Sella non sarebbe passato alla storia se avesse sempre detto sì durante il primo governo Rattazzi o a La Marmora presidente del consiglio.

Nomi luminosi e altri consegnati all’oblio. Un lungo elenco dei responsabili delle entrate e delle spese, dalla proclamazione del Regno d’Italia ad oggi, che si intreccia con i cambiamenti del sistema finanziario centralizzato. Le date principali: nel 1866 viene riordinato il preunitario ministero delle Finanze; nel 1877 viene diviso in due parti, l’una relativa alle imposte e l’altra che concerne la contabilità, il patrimonio e il tesoro: quest’ultima assume la denominazione di Ministero del Tesoro; nel 1922 ritorno alle sole Finanze; nel 1944 viene ricostruito il Tesoro; nel 1947 nuova divisione e nascita del ministero del Bilancio al quale nel 1967 si aggiunge la neonata denominazione di programmazione economica; nel 1997 il Tesoro accorpa Bilancio e Programmazione; nel 2001 nasce il ministero dell’Economia e delle Finanze che assorbe tutte le competenze.

È facile capire quanto questi mutamenti coincidano con quelli istituzionali e politici. Alle esigenze organizzative della giovane Italia subentra l’unicità di comando del Fascismo (difficile pensare che Giuseppe Volpi di Misurata dicesse no a Mussolini), poi il ritorno alla democrazia, tre ministeri che sono lo specchio degli equilibri nelle coalizioni a guida democristiana, la nascita della Programmazione, figlia del centrosinistra e della stagione delle riforme. Dopo Tangentopoli e la crisi dei partiti, trionfano i criteri del maggioritario e dell’efficienza. Un unico comando come garanzia di lotte alle clientele e di trasparenza della responsabilità.  Il primo ad assumere questo ruolo fu Giulio Tremonti, che difese le sue prerogative anche di fronte alle pretese di Silvio Berlusconi, suo amico e capo del governo, fino alle dimissioni. Nel 2005 sbatté la porta Domenico Siniscalco, che gettò la spugna dopo essere stato lasciato solo nello scontro con l’allora governatore della Banca d’Italia  Antonio Fazio, sostenendo di essere in dissenso su quasi tutto. Di nuovo Tremonti, che dopo la parentesi di Tommaso Padoa-Schioppa nel secondo governo Prodi, ritornò a via XX Settembre dal 2008 al 2011. Poi Mario Monti (interim) e Vittorio Grilli, Fabrizio Saccomanni, Pier Carlo Padoan. Ora Giovanni Tria.

E allora, di fronte alle pressioni che sta subendo, vale la pena di rileggere il più grande di tutti, Luigi Einaudi. E in particolare un suo saggio, Maior et sanor pars, nel quale metteva in guardia dagli abusi di chi pretende di parlare a nome del popolo.  “La costituzione degli stati moderni –argomentava –  è fondata sul principio della maior pars, della maggioranza. Quando i cittadini, in voto libero e segreto hanno dichiarato, con la maggioranza della metà più uno, di volere tale uomo a capo del governo, accolto il tale principio nella raccolta delle leggi, osservata una politica di pace oppure di guerra, nazionalizzata ovvero restituita alla privata iniziativa una data industria, attuato un piano economico governato dall’alto invece che dal mercato, preferita la libertà dell’insegnamento al monopolio scolastico dello stato o viceversa, il sindacato unico obbligatorio ai sindacati liberi e molteplici oppure il contrario, quando la maggioranza dei cittadini ha votato, direttamente o per mezzo dei suoi rappresentanti, nell’uno o nell’altro senso, tutto è finito. Vox populi, vox Dei…La voce della maior pars ha parlato. Se questa voce non fosse ubbidita, la minoranza comanderebbe alla maggioranza…Tutta la logica del governo democratico sta in questo semplice nudo ineccepibile ragionamento. Eppure, noi sentiamo di non essere persuasi. Sentiamo che vi può essere una tirannia del cinquantuno altrettanto dura, altrettanto odiosa, come la tirannia dei pochissimi su cento. Da secoli, da millenni la sapienza popolare ha affermato la distinzione fra la democrazia e la demagogia: fra la democrazia che è il governo della maggioranza “vera” e la demagogia che è il governo della maggioranza “falsa”. Ambedue sono il governo che deriva dal cinquantuno per cento; e tuttavia c’è nell’aria, c’è nel metodo di governare, c’è nelle leggi, c’è nel modo di vita, nei costumi, nelle relazioni sociali, nella vita spirituale qualcosa che ci dice: questo non è il governo di popolo, non è governo di una maggioranza che abbia diritto di governare.

E ancora: “A vari segni noi siamo tratti ad affermare che quella, se è la maior pars non è la sanior pars, che i meliores sono rimasti tra i meno e i peiores hanno dominato i più ed hanno parlato come se fossero la voce di tutti. Accade ciò perché tra i più sono numerosi gli ignari, i quali non hanno alcuna attitudine a giudicare dei grandi problemi della cosa pubblica; od i poltroni, pronti ad usare del potere di coazione dello stato per vivere a spese di coloro i quali lavorano, o gli egoisti individuali, repugnanti a sacrificare il momento che fugge alle ragioni dell’avvenire, od i procaccianti, larghi promettitori alle folle di prossimi avventi del paradiso in terra? Chi non sa la difficoltà del mantenere, largamente promette e procaccia il facile suffragio delle maggioranze”.

Einaudi invoca l’esistenza dei “freni al prepotere dei ceti politici” perché in loro assenza “, è probabile che il suffragio della maggioranza sia guadagnato da demagoghi intesi a procacciare potenza, onori e ricchezze a sé, con danno nel tempo stesso della maggioranza e della minoranza. I freni hanno per scopo di limitare la libertà di legiferare e di operare dei ceti politici governanti scelti dalla maggioranza degli elettori. In apparenza è violato il principio democratico il quale dà il potere alla maggioranza, in realtà, limitandone i poteri, i freni tutelano la maggioranza contro la tirannia di chi altrimenti agirebbe in suo nome e, così facendo, implicitamente tutelano la minoranza……I freni sono il prolungamento della volontà degli uomini morti, i quali dicono agli uomini vivi: tu non potrai operare a tuo piacimento, tu devi, sotto pena di violare giuramenti e carte costituzionali solenni, osservare talune norme che a noi parvero essenziali alla conservazione dello stato che noi fondammo”.

Parole del 1945. Dovrebbero impararle a memoria coloro che pensano che il ministro dell’Economia sia un cassiere al quale chiedere i soldi per pagare i fornitori (elettori).

Marco Cianca

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