Paolo Reboani – consigliere economico del Ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali e componente del CNEL
L’Accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali – a cui hanno aderito tutte le parti sociali ad eccezione della CGIL – apre una nuova pagina nella storia delle relazioni industriali in Italia e costituisce certamente una riforma strutturale capace di attrezzare il Paese per la fase di crescita economica che seguirà la difficile crisi in corso. Infatti, il potenziamento di un secondo livello contrattuale decentrato, la possibilità di un utilizzo flessibile del contratto di secondo livello, la scelta di un nuovo indice a cui ancorare la dinamica salariale, la progressiva convergenza tra settore privato e settore pubblico, la riduzione del numero dei contratti costituiscono fattori in grado di assicurare una maggiore produttività ed una accresciuta competitività delle imprese, unitamente ad una virtuosa ripresa degli andamenti retributivi. Senza dimenticare i principi declinati nell’accordo e destinati a regolare in maniera più efficiente il confronto negoziale.
E’ importante ricordare che questo accordo non è lontano dalle considerazioni conclusive che aveva sviluppato nel 1997 la Commissione Giugni – una commissione di economisti e giuslavoristi chiamata dall’allora Presidente del Consiglio e dal Ministro del Lavoro a condurre una valutazione del modello del 1993. Il lavoro di quella Commissione aveva evidenziato in maniera dettagliata, per la prima volta, le disfunzioni ed i limiti di un modello contrattuale nato in un particolare contesto economico e aveva chiaramente indicato, allora, alcuni importanti correttivi.
Non si deve dimenticare che il modello contrattuale del 1993 –anche allora sottoposto ad una clausola di verifica dopo il primo quadriennio di vigenza- è figlio-fratello dell’accordo del 1992 ed aveva come obiettivo fondamentale il controllo dell’inflazione, anche attraverso il rigido contenimento della dinamica salariale, al fine di garantire la competitività del sistema Italia. Questo obiettivo, tuttavia, non poteva mantenere la sua validità nel medio-lungo periodo perché non riusciva a sviluppare il virtuoso binomio tra salario e produttività necessario per garantire la crescita delle retribuzioni e quindi condannava i salari ad una continua erosione del loro potere d’acquisto. Ciò perché il sistema di contrattazione collettiva rimaneva estremamente centralizzato, vi era poca convenienza a sviluppare la contrattazione aziendale o territoriale, l’indicatore di inflazione programmata concedeva poco spazio al decentramento contrattuale.
Il nuovo Accordo, da questo punto di vista risulta più convincente, pone il sistema in condizioni migliori per poter conseguire una “efficiente dinamica retributiva”, così come recita nel preambolo, si adatta maggiormente alla nuova realtà del nostro sistema produttivo rivolto all’export e con produzioni di fascia medio-alta. E salari efficienti fanno bene all’economia, la rendono a loro volta ancora più efficiente (e anche giusta). Peraltro, questa era anche uno delle conclusioni a cui era giunta la Commissione Giugni.
L’adozione di un nuovo indice di carattere europeo –IPCA depurato dall’energia- offre maggiore spazio alla contrattazione decentrata (a livello aziendale o territoriale, secondo le specificità di ogni settore), la quale viene incentivata attraverso interventi di carattere fiscale o contributivo. L’esperienza di questo ultimo biennio, con il successo ottenuto decontribuendo e/o defiscalizzando il secondo livello contrattuale e le parti variabili del salario legati alla produttività e al merito, dimostra il potenziale di questa contrattazione e i benefici che ne possono derivare per l’intero sistema economico. Solo in questa maniera il salario sarà maggiormente collegato alla produttività e risponderà alle condizioni del mercato del lavoro. A ciò contribuisce anche il fatto che il nuovo modello assegna ampia libertà di organizzazione e di definizione del sistema agli accordi interconfederali a livello di settore o categoria, determinando quindi un aumento dei gradi di flessibilità nel sistema.
Certamente, l’abbandono dell’indicatore dell’inflazione programmata rappresenta un importante salto culturale per tutti coloro che da decenni avevano considerato questo indicatore un elemento per la virtuosità della dinamica retributiva in Italia, dopo gli anni della terrificante rincorsa prezzi-salari. E lo è sicuramente per il settore pubblico, il più indietro quanto a retribuzione di produttività o di risultato. Ma non poteva essere differente. Oggi, la nostra economia appartiene all’area dell’euro; le nostre condizioni di competitività sono dettate dalle grandezze economiche europee; il nostro problema è la bassa produttività; non era più possibile, soprattutto dal punto di vista della scienza economica, tenere questo indicatore come il faro del sistema retributivo italiano. Ed è bene non avere tabù in economia, come la storia dell’art.18 insegna.
Il passaggio da un modello quadriennale –con biennio economico- ad un modello triennale, all’interno del quale si devono esaurire tutte le pratiche negoziali e recuperare gli eventuali scostamenti garantisce un maggiore controllo della dinamica retributiva, in linea con la programmazione delle variabili economiche, e riduce il rischio di ritardi e “vacanze” contrattuali, che accrescono l’incertezza retributiva. D’altra parte, l’obiettivo di ridurre i contratti potrà concorrere ad una progressiva razionalizzazione di tutta la complessa architrave contrattuale, concentrando, di conseguenza, l’interesse sulla negoziazione salariale “pura”. Anche su questo la Commissione Giugni aveva avviato una riflessione ed era giunta alla conclusione che il sistema dei recuperi poteva essere razionalizzato e reso più efficiente (anche giungendo ad ipotizzare di un sistema di negoziazione annuale alla giapponese).
Non vi è dubbio che le considerazioni della Commissione Giugni in merito alla revisione del modello contrattuale erano, per certi aspetti, anche più avanzate dei principi comuni e condivisi dell’Accordo quadro. Con maggiore enfasi era sottolineata la necessità di una specializzazione dei due livelli contrattuali, con un ruolo sempre più limitato affidato al contratto nazionale e un ruolo predominante che assumeva progressivamente il contratto di secondo livello. Fortemente sottolineata era la dimensione territoriale, quale credibile alternativa al livello aziendale.
Da questo punto di vista, molto discussa all’interno della Commissione Giugni era stata allora stata allora la possibilità di prevedere clausole contrattuali in deroga, allora mutuate dall’esperienza tedesca, il cui obiettivo non era quello di diminuire i diritti o le garanzie dei lavoratori, quanto di aumentare la capacità di risposta della contrattazione ai mutamenti delle condizioni del contesto economico senza che si riducesse la base occupazionale. Il fatto che l’Accordo quadro preveda questa possibilità –sia pure con prudenza- sottolinea quanto quella linea di pensiero fosse “profetica” ma soprattutto quanto sia importante che il modello contrattuale sia un modello flessibile e non un sistema rigido di regole e meccanismi.
Per tutte queste ragioni, dispiace, oggi, dovere constatare la lentezza delle parti sociali a rispondere ad un quadro economico in continuo divenire, ad innovare, a percorrere piste di modernizzazione. Se ne comprendono le ragioni ma anche i limiti.. Questo accordo credo si debba iscrivere nel solco degli importanti accordi di relazioni industriali di questo Paese perché modernizza un modello che durava dal 1993 e che non era più in linea con le necessità del Paese. Il modello contrattuale in Italia avanza come il processo di integrazione in Europa : passi in avanti ma anche qualche arretramento, qualche immobilismo di troppo, il che significa però rimanere indietro nel mondo globalizzato che corre a ritmi elevati. L’appuntamento ora è tra quattro anni con la speranza che allora si possa intervenire in tempo reale con adeguati, se necessari, interventi di manutenzione.