Non corro, non ballo, non saltello. Semplicemente il 25 novembre da oltre mezzo secolo, lavoro a testa bassa perché le italiane possano ottenere nella società il ruolo che le aspetta di diritto e non siano sempre considerate un “di cui”, rispetto al tema della violenza culturale e concreta che si abbatte come una clava su di noi. Sicuramente senza presunzione di completezza e facendo proposte ragionevoli là dove destra e sinistra sono ancora distratte. E oggi a mettere in fila le liste delle ultime regionali saltano agli occhi la pochezza dei nomi femminili e i risultati delle elezioni regionali mostrano come, la tendenza all’esclusione delle donne dai ruoli di potere non sia ancora sanata e che per le donne il percorso verso l’elezione è più in salita rispetto agli uomini. E parliamo di Regioni dove le donne rappresentano poco più del 51% della popolazione residente; siamo dunque a circa il 20% di rappresentanza femminile. Inoltre, non c’è nessuna candidata donna alla Presidenza delle regioni che sono già andate al voto, tantomeno in quelle che hanno votato in questo autunno 2025. Francamente penso che stiamo tornando indietro e anche questo è un segnale di discriminazione di accesso alla gara e dunque di una violenza apparentemente più nascosta ma sempre bruciante. Dunque delle recenti elezioni regionali in termini di pari opportunità di accesso alla politica i dati parlano chiaro e la tendenza emersa fino ad ora non è incoraggiante e dovrebbe impegnarci almeno a cercare non cause – che conosciamo assai bene – ma soluzioni, al fine di onorare e rispettare i principi costituzionali di parità e uguaglianza. La Costituzione della Repubblica democratica italiana, infatti, non solo afferma l’uguaglianza “senza distinzione di sesso” nei suoi principi fondamentali (art. 3), ma fin dall’origine contiene norme espressamente volte a garantire il principio delle pari opportunità uomo-donna in materia elettorale (art. 48 e 51), che la revisione costituzionale degli articoli 117 nel 2001 e 51 nel 2003 ha reso ancor più esplicito. Evidentemente tutto questo non basta perché il principio di eguaglianza si traduca effettivamente nella realizzazione di una democrazia paritaria. Le ragioni della flessione delle candidate e delle elette nelle regioni in cui si è votato, oltre alle motivazioni alla base della mancanza di donne ai vertici delle istituzioni regionali sono evidentissime: le dinamiche interne ai partiti, la difficoltà sperimentata dalle donne nel trasformare i voti in rappresentanza concreta, oltre che l’influenza esercitata dalla società patriarcale in cui viviamo sul voto degli elettori in termini di preferenza e dalle poche risorse che si mettono nelle campagne elettorali per appoggiare le candidate. Questa è la verità ed è inutile fare sondaggi perché l’obiettivo di ottenere e mantenere il potere, di fatto crea una chiusura interna, che può portare i partiti in grandissima difficoltà, a concentrarsi più sulla propria sopravvivenza e sul loro consolidamento, che sugli obiettivi inziali e sbandierati ma non osservati concretamente. Questa evidente tendenza all’auto-referenzialità e alla conservazione favorisce, ancora oggi, una distribuzione diseguale del potere a vantaggio degli uomini e chiaramente lo ritroviamo nel numero delle donne collocate con ruolo nelle posizioni di vertice degli organismi dei partiti politici per capire a che punto siamo, tenendo conto del principio per il quale, finché le donne non contano è necessario non passare oltre ed evidenziare le disuguaglianze. Poi vero è, diciamolo forte e chiaro, che le scelte elettorali in termini di preferenza di genere, sono il riflesso anche della società in cui viviamo. La nostra società patriarcale è ancora intrisa di stereotipi e pregiudizi tali, da far riconoscere ancora nelle donne, il gruppo sociale con minori caratteristiche necessarie a ricoprire ruoli di leadership, rispetto agli uomini. E anche nel mondo del lavoro siamo ancora indietro, troppo indietro, e sono lo specchio della società in cui viviamo, in cui gli uomini di fatto ricoprono in maggioranza i ruoli di leadership aziendale e politica, ed è in grado di influenzare ancora e in modo significativo una parte dell’elettorato sulla scelta del voto di preferenza. Sono infatti ancora poche le donne che svolgono o hanno svolto ruoli apicali in ambito politico e certo è che la figura di Giorgia Meloni è ora dominante perché nella storia italiana non abbiamo mai avuto una Presidente del Consiglio determinata e potente e neanche una Segretaria di partito della minoranza così energica. Ma non basta perché qualsiasi cordata che possiamo ancora fare anche per aiutare le giovani donne che si lamentano ma poi si aggregano in troppe ai movimenti di rivolta violenti, senza cercare alleanze, mentre dovrebbero unirsi per ottenere riforme vere nel mercato del lavoro. Con la sola esclusione della classe 55-64 anni, la popolazione femminile è diminuita in tutte le fasce d’età considerate, in particolare tra le 35-44enni, dove il calo è stato dell’11,8% e solo il 53% delle donne italiane tra i 15 e i 64 anni risulta occupato, contro una media UE del 66%. E ancora permane il gender gap nel mondo del lavoro in Italia, il tasso di occupazione secondo Inps è inferiore a quello maschile di quasi 20 punti , alle donne vengono offerti più frequentemente e applicati contratti a tempo determinato o part time, gli stipendi sono più bassi di oltre il 20% ed è raro che le lavoratrici passino a ruoli dirigenziali anche se sono ad un livello di istruzione mediamente più alto. E questo lo dice il Rendiconto di genere a cura del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale. E se non è violenza di genere questa, cosa è ?
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