“Roma ladrona”. Il vecchio mantra della Lega di Bossi riemerge, a sorpresa, nel mondo nuovo della Lega di Salvini. Il terreno è quello della battaglia sull’Autonomia, ovvero quella che i tecnici chiamano “autonomia differenziata”, reclamata da due Regioni, Veneto e Lombardia (l’Emilia Romagna si muove su un binario diverso). Ma, in realtà, quello a cui stiamo assistendo è la prima crisi esistenziale della Nuova Lega Nazionale. Una crisi, prima o poi, inevitabile, ma a cui il Capitano appare del tutto impreparato o, forse, pienamente consapevole che, qualsiasi scelta compia, oggi non può che perdere. Una brutta sorpresa, dopo un anno lastricato di successi di propaganda. Ma che Salvini si è tirato addosso da solo.
Succede, nella politica di oggi, quando uno perde la battaglia cruciale. Quella mediatica. Padrone incontrastato dei social e dei tweet, quando si tratta di migranti, sicurezza, tasse, nutella e antipolitica, sull’autonomia Salvini è stato asfaltato non dai grillini, non dall’opposizione, ma da un semplice professore di Economia dell’università di Bari, Gianfranco Viesti, che l’ha bollata come “secessione dei ricchi”, costruendo, intorno alla polemica, una mobilitazione social, con tanto di petizione popolare. La “secessione dei ricchi” è diventata un marchio impresso a fuoco sul dossier, che Salvini, Giorgetti, Zaia e Fontana non sono mai riusciti a mascherare, che ha agitato l’opinione pubblica e ha costretto i 5Stelle a schierarsi con decisione. Un disastro, per la Lega. Che, ora, può anche riuscire ad imporre il suo progetto al resto del governo. Ma avrà imposto la “secessione dei ricchi” e dovrà pagare il prezzo di quello che, a torto o ragione, apparirebbe un atto di tracotanza.
Se appare così, peraltro, è perché lo è. La formula “secessione dei ricchi” non è solo ben trovata. Coglie nel segno. In buona sostanza, Lombardia e Veneto vogliono ritagliarsi, per il futuro, per spenderla in proprio, una quota crescente delle risorse fiscali, generate sul loro territorio. Attenzione, non risorse crescenti per far fronte a spese crescenti per la funzione (la scuola, ad esempio) decentrata. Ma una quota prefissata degli introiti fiscali, a prescindere dalla spesa effettivamente sborsata. Se l’economia della Regione tira e gli incassi fiscali salgono, Zaia e Fontana, i due governatori, si terrebbero quei soldi in più. “Bisogna premiare i virtuosi”, dice il governatore della Lombardia. Questo, tuttavia, significa sottrarre al resto della collettività nazionale parte dei frutti della ripresa economica di due delle regioni più ricche e dinamiche del paese. Non è un risultato accidentale, ma voluto. Lo ha fatto chiaramente intendere il lombardo Fontana, quando, di fronte alla possibilità che quell’extragettito confluisca in un Fondo di perequazione nazionale, per redistribuirlo fra tutte le Regioni, ha fatto sapere: “Neanche per sogno”.
Il secondo infortunio mediatico, che ha trasformato, di getto, davanti all’opinione pubblica, l’alone di tracotanza e il sospetto del colpo di mano nella certezza del raggiro è stato il goffo tentativo di tenere tutto sotto coperta, rifiutando lo scrutinio del Parlamento e un dibattito trasparente, nell’ansia di arrivare ad un “prendere o lasciare”, fra governo e Regioni, che odora di fregatura lontano un miglio.
Insomma, una “secessione dei ricchi”, imposta da mani molto svelte. Ci vuole una gestione assai poco sveglia del dossier per farsi rinchiudere in quell’angolo. Ma Salvini ci si ritrova, perché il nodo è politico. Anzi, di più: deve illuminare, una volta per tutte, la traiettoria del suo progetto politico. La tesi “premiamo i virtuosi” può, probabilmente, infatti, fare proseliti in Veneto o in Lombardia. Ma, nel resto d’Italia, è una ricetta suicida. La divaricazione è netta e, per Salvini, letale.
Veneto e Lombardia non sono solo due province importanti, sono il cuore pulsante della Lega, il suo motore e, in larga misura, la sua ragion d’essere. Zaia e Fontana sono i custodi degli equilibri interni della leadership di Salvini. Non sono i feudatari che rispondono del loro potere al Capitano. Al contrario, ne sono i grandi elettori. E’ lui che risponde a loro. Se non paga la cambiale, consegnando l’autonomia differenziata come la intendono a Milano e a Verona, è la sua leadership che va in discussione. Ma, contemporaneamente, la Lega lombardo-veneta, a livello nazionale, vale il 10-12 per cento dei voti nelle urne. Il resto del 34 per cento che i sondaggi attribuiscono alla Lega viene dal resto d’Italia, compreso quel Sud che “virtuoso”, come direbbe Fontana, non è, ma che è il grande terreno di espansione immaginato da Salvini. Bastano la retorica dei migranti e della sicurezza a mettere al sicuro i voti del Piemonte, come della Calabria o bisogna pensare a redistribuire a pioggia i benefici dell’autonomia differenziata? Ma se l’autonomia differenziata è uguale per tutti, non c’è vantaggio per nessuno. Il sentiero è stretto e la curva che deve affrontare Salvini molto scivolosa.
Maurizio Ricci