Giorgia Meloni è solida e stabile. Questo è il giudizio dei mercati, con lo spread ai minimi da decenni e con i rendimenti dei titoli di Stato francesi più alti di quelli italiani come mai era stato. Eppure, il prossimo autunno per la premier si annuncia come una via crucis: l’economia è praticamente ferma, l’inflazione ha rialzato la testa, il potere d’acquisto delle famiglie è crollato dal 1990 del 30%, c’è l’incognita-tsunami dei dazi di Donald Trump, mancano all’appello i soldi per mantenere le mille promesse elettorali, incluse la sforbiciata delle tasse e l’innalzamento delle pensioni. Insomma, Meloni va verso un’altra legge finanziaria asfittica e senz’anima, anche perché dovrà destinare decine di miliardi (si parla di 70) al riarmo imposto dal suo amico Trump.
E non è solo il fronte economico ad agitare i sonni di Meloni. Nel prossimo autunno si giocherà l’importante partita delle elezioni regionali in Veneto, Toscana, Marche, Campania, Puglia. Ebbene, tutte le previsioni sono nefaste per la maggioranza di governo: la partita potrebbe finire 4 a 1 per il centro sinistra (ora è 3-2). Con le Marche espugnate grazie a Matteo Ricci; la Puglia confermata con la candidatura di Antonio Decaro, la Toscana saldamente nelle mani dell’uscente Eugenio Giani; la Campania transitata dallo “sceriffo” Enzo De Luca a Roberto Fico o Gaetano Manfredi, ora sindaco di Napoli. Solo il Veneto, con ogni probabilità, resterà a destra. Non però come vorrebbe la logica sotto le insegne di Fratelli d’Italia, che in quella Regione è di gran lunga il primo partito con il 37% dei voti, ma di quelle della Lega. La ragione: Luca Zaia, il doge, minaccia di far correre da sola la Liga Veneta – condannando il centrodestra a sconfitta certa – se la “sua” Regione non rimarrà leghista. E Giorgia sembra piegarsi al ricatto, consolandosi con la promessa di Matteo Salvini di cederle la Lombardia nel 2028. Un pagherò degno di “Totò truffa”: 3 anni in politica sono un’era geologica, tutto può cambiare.
Ma c’è di più. C’è che Meloni e i suoi alleati prenderanno le quattro sberle a rate. Si voterà infatti prima in Toscana a inizio ottobre, poi nelle Marche, infine verso novembre in Puglia, Veneto e Campania. E ogni volta, a ogni voto, Meloni dovrà bere il calice amaro. Meglio, molto meglio, sarebbe stato per la premier un bell’election day dopo il quale archiviare in tutta fretta la batosta del 4 a 1. Ma i governatori l’hanno impedito. C’è chi vuole andare al più presto alla resa dei conti. E c’è chi, come Zaia, De Luca e il pugliese Michele Emiliano, intende tenersi la poltrona di presidente di Regione il più a lungo possibile.
In aggiunta, il centrodestra è sbriciolato sul fronte europeo. Meloni, sotto la supervisione di Sergio Mattarella, ha deciso di fare l’europeista anche se a volte le scappa la frizione e fa votare i suoi a Strasburgo assieme ai Patrioti di Viktor Orban. Salvini a giorni alterni strizza l’occhio a Trump e a Vladimir Putin, rischiando uno strabismo deflagrante. Antonio Tajani gioca a fare il liberal, sfornando la proposta dello ius scholae per i migranti. Più per seguire le indicazioni di Marina Berlusconi, che vorrebbe Forza Italia meno schiacciata sull’ultradestra, che per convinzione.
Ma torniamo al giudizio dei mercati. Come mai, in barba a questo quadro a tinte fosche, la valutazione del Paese targato Meloni è positiva? Perché i sondaggi continuano a indicare Fratelli d’Italia vicini alla soglia del 30%, quasi quattro punti in più dei voti incassati alle elezioni del 2022? La risposta va ricercata a sinistra: il governo è stabile e solido nonostante i rovesci in arrivo, perché non c’è un’alternativa di governo credibile.
Per paradosso Elly Schlein è la ciambella di salvataggio di Meloni. La segretaria dem, che come ragione sociale avrebbe lo sfratto della leader di Fratelli d’Italia da palazzo Chigi, sta nei fatti aiutandola a restare al timone del Paese.
Le prove del harakiri sono numerose. C’è l’azzardo, fallito, dei referendum sul Jobs Act e sulla cittadinanza. C’è la radicalizzazione del Pd, un partito che ha perso la sua vocazione riformista: è schierato contro il riarmo imposto dal disimpegno di Trump nella difesa dell’Europa, è balbettante nel sostegno senza se e senza ma all’Ucraina, è ambiguo sul dramma di Gaza. Scelte compiute da Schlein per inseguire i 5Stelle di Giuseppe Conte e l’Avs di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni. Per provare, dunque, a tenere assieme quello che viene chiamato campo largo.
L’alleanza Pd, 5Stelle, Avs – oltre a contorcersi su questioni molto radical come il gay pride di Budapest e meno sul potere di acquisto delle famiglie – soffre però della sindrome della coperta corta. Spostandosi a sinistra ha perso i contatti con il centro riformista. Non intercetta più gli elettori moderati, quelli per intenderci che votavano per l’Ulivo di Romano Prodi e ora non votano né per Schlein né per Meloni, come dimostra un’astensione arrivata alle ultime elezioni europee sopra la soglia del 50%.
Da qualche settimana Schlein sta provando a correre ai riparti. Sta spingendo Ernesto Maria Ruffini, l’ex direttore dell’Agenzia delle entrate, a fondare un suo movimento centrista che poi dovrebbe allearsi con il Pd e soci. Ma a una condizione: dovrà essere Elly e nessun altro a correre alle elezioni per la premiership. Con un’incognita non da poco: Ruffini, ma anche Conte, saranno disposti a fare i portatori d’acqua per la segretaria del Pd? Difficile. Ma guai a parlare a Schlein di primarie di coalizione: al ruolo di front woman proprio non ci vuole rinunciare. L’epilogo perciò è scritto: si finirà con un’alleanza fondata sulla desistenza e non su un programma comune di governo. Il famoso lodo ideato da Dario Franceschini: alleati alle elezioni per provare a battere la destra e niente più.
Nel frattempo Meloni se ne resta, intoccabile, a palazzo Chigi. Dove progetta di restarci fino al 2032. Amen?
Alberto Gentili