Alla fine, sia la Bce che la Fed hanno deciso di confermare, anche di fronte allo spettro di una crisi bancaria internazionale, il cammino di lotta all’inflazione con l’accelerato rialzo dei tassi di interesse. La differenza, rispetto a prima del tracollo della Silicon Valley Bank e dei successivi tremori, è solo che sia Jay Powell in America che Christine Lagarde in Europa hanno moderato la retorica: la corsa dei tassi, finora già scritta e scontata, potrebbe essere rivista, se la situazione delle banche lo imponesse. Ma, anche con le cautele di Lagarde e Powell, le scelte di questi giorni non sono prive di rischi. Sul fronte, soprattutto, dell’economia: più di un economista ha suscitato il fantasma della stagflazione, stile anni ‘70. Meno invece su quello delle banche: il 2023 non è il 2008.
Quindici anni fa, la crisi investì angoli un po’ trascurati, oscuri e poco regolati della finanza, come le banche di investimento e il mercato immobiliare americano, su cui si erano esposte banche di tutto il mondo, attraverso catene di opachi titoli derivati. Una volta accertato che i subprime non valevano quanto dichiarato, il domino spazzò la finanza internazionale. Oggi la crisi riguarda banche tradizionali (quindi vigilate e supportate, anche se negli Usa meno che in Europa). E, in superficie, il sistema appare solido: in Europa, nel 2015, c’erano mille miliardi di euro di prestiti dubbi, oggi sono un terzo, 350, pari solo al 2 per cento dei prestiti totali. Nè finanza-ombra, nè investimenti a rischio, insomma. Il paradosso, o l’ironia della faccenda, è che la crisi nasce e i timori si perpetuano, perché le banche hanno scelto l’investimento più sicuro per definizione: Treasuries, Bot, Bonos, Bund, ovvero i titoli di Stato. In una parola, si potrebbe dire che il problema delle banche, oggi, è soprattutto di tempistica.
Inondate di liquidità ai tempi del Quantitative easing, inaugurato da Draghi, le banche hanno massicciamente investito nei titoli di Stato. In Europa, nei loro portafogli, ce ne sono per 3.300 miliardi di euro. Ma i tempi dell’inflazione bassa e dei tassi di interesse a zero sono finiti. Sia in America che in Europa, le banche centrali, per contrastare l’inflazione post-Covid e post-Ucraina, hanno avviato un percorso di inasprimento dei tassi, mai così brusco e così veloce. Le banche hanno visto gonfiarsi i profitti (prestiti e mutui costano ai clienti il 4-5 per cento, ma i depositi non vengono pagati neanche l’1 per cento), ma svuotarsi i patrimoni. Quei titoli che hanno in pancia, ai vecchi tassi, valgono molto meno rispetto ai titoli di nuova emissione: se smobilitassero il portafoglio accumulato prima, vendendo i titoli alle quotazioni attuali, sempre in Europa, realizzerebbero perdite per 370 miliardi di euro.
Naturalmente, se tengono i titoli fino a scadenza, non perdono neanche un euro. Ma se una emergenza li costringesse a vendere ora (come è accaduto alla Silicon Valley Bank) ecco che i 370 miliardi di perdita si materializzerebbero all’improvviso. E l’emergenza è dietro l’angolo: nei tempi dell’Internet banking, la corsa agli sportelli è questione di minuti, non di giorni. Se il panico si diffonde, una banca, e poi un’altra, e poi un’altra potrebbero trovarsi con le casse vuote e la necessità di vendere subito Bot e Bund. Ecco perché il rischio di contagio non si può escludere del tutto, anche se, dopo la soluzione a strattoni del caso Credit Suisse, la calma sembra tornata nel mondo delle banche.
Ma i problemi dell’economia ci sono ancora tutti e la navigazione delle banche centrali diventa ancora più complicata e delicata di prima. In Europa, la disponibilità delle banche a prestar soldi era già, secondo le statistiche della Bce, in vistoso calo a gennaio. Ora, il rischio di contagio moltiplicherà la cautela e decimerà i prestiti, azzoppando l’economia. Da un certo punto di vista, questo rallentamento favorisce la politica delle banche centrali, perché dovrebbe ridurre l’inflazione e qundi ridurre la spinta ad aumentare i tassi: se la stretta monetaria è già nelle cose, non c’è bisogno di stringere ancora. Ma, in questi casi, il pilota automatico non funziona. Il rischio è di stringere doppio e capirlo subito non è facile, perché le decisioni di politica monetaria hanno effetto sull’economia non subito, ma a 15-18 mesi di distanza. Ecco perché la scelta di Joachim Nagel di convocare il Financial Times per comunicare la volontà della Bundesbank di andare avanti con gli aumenti dei tassi, ancora a lungo, perché le banche non lo preoccupano, è la risposta alla domanda sbagliata e un vistoso annuncio di battaglia. Fra due mesi, alla prossima riunione del board della Bce per decidere la politica monetaria, la posta in gioco nello scontro tra falchi e colombe sarà ancora più alta.
Maurizio Ricci