Se ne parla tanto, con sdegno e anche senso di colpa, perché i problemi che affliggono il sistema carcerario italiano non sono dell’ultim’ora. È una storia che viene da lontano, fatta di malagestione e sciatteria che si sono tradotte in una condizione di profonda emergenza: sovraffollamento, tasso di suicidi in crescita sia tra i detenuti che tra gli agenti di Polizia Penitenziaria, strutture inadeguate, mancanza di programmi riabilitativi. Ultimo, ma non ultimo, il ritorno di uno Stato securitario con l’emanazione di leggi e decreti che prevedono la detenzione anche per reati un tempo considerati minori. È in questo contesto che l’Organismo Congressuale Forense ha promosso il convegno dal titolo “Le persone dimenticate”, che si è tenuto giovedì 10 luglio presso il CNEL, diventato casa dei diritti dei detenuti dalla firma dell’accordo interistituzionale con il ministero della Giustizia e per la promozione del programma “Recidiva Zero”, di cui lo scorso giugno si è tenuta la seconda sessione per fare il punto sull’importanza del lavoro per abbattere la recidiva.
A prendere parola nella giornata odierna sono state voci autorevoli del mondo giuridico, accademico, istituzionale e associativo per affrontare le principali criticità del sistema e delineare percorsi concreti di riforma, ma anche importanti testimonianze come quella di Beniamino Zuncheddu, vittima di un’ingiusta detenzione durata oltre trent’anni, e di Andrea Noia, che racconterà il proprio percorso di reinserimento sociale attraverso il lavoro, dimostrando come il carcere possa rappresentare, se orientato in senso costruttivo, anche un’opportunità di riscatto.
In questa estate che sta facendo segnare temperature record, le carceri italiane si trasformano in trappole di calore che rendono le condizioni di detenzione non solo disumane ma pericolose per la salute e la vita dei detenuti e degli operatori. I numeri parlano da soli: 62.722 detenuti in spazi pensati per 46.706, con un tasso di sovraffollamento del 134,29%. A ciò si aggiungono 34 suicidi tra i detenuti e 2 tra gli agenti penitenziari dall’inizio dell’anno, segno di un malessere diffuso che il caldo estremo sta solo esasperando. Celle senza aria condizionata, ambienti chiusi e affollati, mancanza di personale e impossibilità di accedere a percorsi rieducativi rendono il carcere un luogo invivibile.
Il naturale punto di partenza del confronto è l’articolo 27 della Costituzione evidentemente disonorato nella sua applicazione, come ricordano tutti gli oratori: “[…] Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E se, come recita l’ultimo comma, “non è ammessa la pena di morte”, l’avvocato Mario Scialla, coordinatore OCR, sottolinea come purtroppo si continua a morire di carcere: oltre 5mila vittime tra suicidi, patologie non curate e assenza di LEA (elemento sottolineato anche da una ricerca dell’associazione Luca Coscioni). E in questo giro di vite sono coinvolti anche gli agenti di polizia penitenziaria, il corpo che conta il maggior numero di fatali gesti autolesionistici. Latita una coscienza collettiva sul dramma del carcere, sottolinea ancora Scialla, e in sua vece il sistema continua a difendere sé stesso e non i diritti umani, aggiunge Carlo Morace, componente della Commissione Detenzione OCF.
Un dramma che trova le sue origini anche nell’insostenibile situazione di sovraffollamento. Per Leonardo Arnau, responsabile della Commissione dei diritti umani del CNF (e presidente dell’OIAD, l’asse è stato spostato dalla prevenzione alla penalizzazione dei reati, dallo stato sociale a quello penale. Oggi, sottolinea, a problemi complessi si risponde con il carcere, che invece dovrebbe essere l’ultima ratio, così aggravando ulteriormente il problema del sovraffollamento e quanto ne consegue. È in questo modo che il carcere diventa un contenitore in cui si agita e alimenta il conflitto. Secondo Arnau la politica fa a gara “a chi è più cattivo” – e lo dimostrano, in particolare, il decreto rave, il decreto Caivano, il decreto Sicurezza emanati dal governo in carica. A questo proposito Michele Passione, avvocato del Foro di Firenze, sostiene che una legge senza cultura sociale diffusa favorisce la proliferazione di reati (ultimo tra i quali, in discussione, quello sulla manipolazione mentale e il settarismo) e si presta ad attacchi, andando così in direzione contraria rispetto agli urgenti obiettivi da raggiungere.
Il carcere, continua Arnau, non ha alcun effetto taumaturgico: dunque, chiede provocatoriamente, serve ancora ai suoi scopi? Piuttosto, la sensazione è che a fronte di questo climax in crescendo di suicidi in Italia la pena di morte esista. La soluzione non è, come qualcuno vorrebbe, costruire più strutture carcerarie (ci vorrebbero quattro penitenziari in più all’anno per tenere il ritmo dei tassi di ingresso), ma tenere presente la centralità della persona e che questa sia sempre scissa dal reato commesso, come recita l’insegna all’ingresso del carcere di Pianosa: “Qui entra l’uomo e il reato resta fuori”.
In questo senso, figure di riferimento sono gli avvocati e la Commissione Detenzione Carcere che ha sempre monitorato la situazione, gli unici ad avere contatti costanti con i detenuti e che portano fuori le loro voci di dolore: le portano alla politica e a tutte le forme istituzionali per orientare costituzionalmente la loro attenzione sul sistema carcerario, come arguisce Vittorio Minervini, vicepresidente Fai e consigliere nazionale forense.
Insomma, occorre dare urgenti risposte di sistema al problema delle carceri. Non un compito semplice, certo. Un punto di partenza è il lavoro, il ponte tra carcere e l’esterno per favorire un sano reinserimento e abbattere il tasso di recidiva; dunque unire la politica con le forze produttive. In questa direzione va anche la piattaforma SIISL del ministero del Lavoro rivolta ai più fragili sul mercato, su cui si sta lavorando affinché possano essere inseriti anche i profili dei detenuti. L’obiettivo è avviare entro l’anno la profilazione di tutti i soggetti. Compito improbo, ma necessario: si parla di oltre 62mila individui, cui si aggiungono circa altri 100mila coinvolti in altre misure di esecuzione della pena e 90mila in attesa, per un totale di quasi 250mila persone. Ma il lavoro, si diceva, così come anche la formazione e la cultura stessa, sono solo un punto di partenza e mai di arrivo, perché cruciale per il mantenimento di un apparente equilibrio è il ruolo delle reti: una volta fuori, la recidiva si attesta intorno al 70% perché il soggetto è marchiato dallo stigma del carcere; senza protezione familiare, senza lavoro, senza appoggio alcuno è difficile non ricadere nel reato.
Gianpaolo Catanzariti, Responsabile nazionale dell’Osservatorio Carcere UCPI, condanna l’uso strumentale che parte della politica fa del carcere e della sua popolazione, anche sui temi del lavoro: solo il 34% dei detenuti lavora, per di più all’interno degli istituti. Il 4% lavora fuori, di cui appena l’1% in ambito privato. La mancanza di opportunità lavorative ai detenuti costa alla collettività circa 480milioni di euro. Occorrono più alternative al carcere e uno sprone ulteriore da parte del Presidente della Repubblica Mattarella che, a suo avviso, dovrebbe inviare un messaggio formale alle Camere per fare breccia in una politica male informata, nel rispetto della democrazia e del benessere dell’intera comunità.
Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino e storica attivista attualmente in sciopero della fame per convincere il Parlamento a riesaminare urgentemente il disegno di legge Giachetti per l’allargamento temporaneo della liberazione anticipata, mette al centro il concetto di speranza: dare ed essere speranza per le persone che non hanno strumenti per difendersi ed è questo il ruolo delle reti che devono sostenere il tanto il carcere quanto la persona stessa. A queste condizioni, però, risulta difficile: nella Polizia Penitenziaria, per fare un esempio, solo lo scorso anno sono usciti 4mila agenti ed entrati solo 2.700, facendo salire il fabbisogno ad altri 6mila per gestire lo svolgimento delle attività che pure latitano. Inoltre, le carceri italiane sono senza regolamenti interni, perché in discussione o in riformulazione: ciò si traduce in una mancanza dello stato di diritto, laddove nessun detenuto è a conoscenza delle proprie facoltà. Una totale assenza di responsabilità da parte della politica, che le carceri non le conoscono perché si limitano a osservare il freddo numero su carta. Per questo l’associazione poterà negli istituti deputati e senatori: guardare per capire di cosa parlano senza precisa contezza.
Insomma, il carcere deve essere analizzato non come un problema, ma come una risorsa per un fine più ampio, che metta al centro la persona, come sottolinea Emiliana Olivieri, componente della Commissione Detenzione OCF. Molte sono le difficoltà – come la già citata profilazione – ma ci sono realtà come, tra le altre, le cooperative che (più delle imprese, poiché il sociale no profit è insito nella loro mission) seguono i percorsi di reinserimento dei detenuti non abbandonandoli ai loro inciampi di percorso e predisponendo anche situazioni abitative e reti di supporto burocratico. Il lavoro non può prescindere dalle soggettività e per questo l’inciampo va accompagnato. I lavori dei detenuti, tra l’altro, sono dequalificati e per questo occorrono anche più percorsi di professionalizzazione.
Tuttavia in Italia si vantano anche istituti virtuosi, come quello di Bollate. Il direttore Giorgio Leggieri rimarca con forza la significatività del tema del lavoro, soprattutto a trattamento avanzato. Per far sì che funzioni, bisogna avere un approccio culturale e organizzativo ben preciso che abbia al centro un percorso di dialogo con il sistema impresa, in particolare per quanto riguarda le criticità gestionali del lavoro dei detenuti che richiedono flessibilità. Una nota di merito, proprio in virtù del consolidamento di questo rapporto, va alle modifiche apportate dal Decreto sicurezza alla legge Smuraglia, che consente a tutte le imprese (e quindi non solo a quelle che entrano in carcere) di usufruire di sgravi fiscali fino al 90% all’assunzione di un detenuto o ex detenuto. Inoltre, importante sarebbe estendere l’applicazione dell’articolo 21 (I detenuti e gli internati possono essere assegnati al lavoro all’esterno). Aumentare i livelli occupazionali tra la popolazione detentiva, infine, è importante per i detenuti al fine di raggiungere una minima autonomia di reddito anche per restituire le spese di mantenimento in carcere – in assenza del quale si tramuterebbero in cartelle esattoriale una volta fuori, il che innescherebbe di nuovo la spirale della recidiva. È l’approccio da parte dell’amministrazioni carcerarie che fa la differenza.
L’OCF ha ribadito l’urgenza di una riforma su tre direttrici principali:
- Investimenti strutturali: non solo nuove carceri, ma riqualificazione dell’esistente, con spazi adeguati per attività formative, lavorative e trattamentali. Fondamentale anche garantire il diritto all’affettività, come stabilito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 10/2024.
- Potenziamento delle misure alternative: comunità terapeutiche, case famiglia, centri di servizio sociale, per favorire percorsi di pena che permettano il reinserimento nel tessuto sociale, in una logica non emergenziale ma di sistema.
- Riforma del processo esecutivo: snellimento del procedimento di sorveglianza e rafforzamento del ruolo della difesa anche nella fase esecutiva, attraverso la formazione specialistica degli avvocati e il dialogo interdisciplinare con magistrati, educatori, psicologi e terzo settore.
Inoltre, è stata rilanciata la necessità di valutare la proposta di legge sulla liberazione anticipata come strumento immediato per alleggerire la pressione interna, nell’attesa di riforme strutturali.
Il messaggio è chiaro: il carcere non può essere una zona grigia della Repubblica. È lo specchio del nostro grado di civiltà democratica.
Elettra Raffaela Melucci