Nelle classifiche delle innovazioni industriali, ce n’è una in cui l’Italia fa la sua figura. E’ quella dei robot. Entro il 2020, nelle fabbriche del mondo ce ne saranno 2,6 milioni e il nostro paese ne avrà, probabilmente, una quota significativa. Oggi, ce ne sono 300 mila in Giappone, 250 mila in Cina (che però li aumenta 50 mila l’anno), 180 mila negli Usa e in Corea, 130 mila in Germania. L’Italia, con 50 mila, è nel gruppo dei 10 paesi a più alta densità robotica. E’ un dato che ha due facce. Per un verso, indica che, per una volta, non siamo in fondo alle classifiche. Per un altro, che siamo fra i paesi più esposti a un imminente tsunami.
Baxter, prodotto dalla iRobotics, costa 22 mila dollari, per una vita media di 3 anni. Uno studio dell’Ocse, l’organizzazione che raccoglie i paesi industrializzati, calcola che possa durare per 6500 ore di lavoro. Significa un costo di 3,38 dollari l’ora. Destinato, per giunta, a crollare. Uno studio del Boston Consulting Group valuta che, da qui al 2025, il costo di un robot diminuirà del 20 per cento l’anno e, contemporaneamente, le sue prestazioni miglioreranno del 5 per cento. Risultato? In alcuni settori, il 40 per cento delle funzioni sarà presto svolto dai robot. La discriminante è semplice: Boston Consulting Group calcola che un robot diventa conveniente, quando riesce a svolgere lo stesso lavoro di un uomo, ad un costo del 15 per cento inferiore. Nel caso di Baxter, significa che si tratta solo di capire che lavoro può fare.
Unito al generale processo di digitalizzazione, questa robotizzazione delle fabbriche fa intravedere, nel lungo termine, un terremoto che spazzerà il lavoro che conosciamo (secondo alcuni, quasi metà delle funzioni lavorative sono a rischio di automazione). Ma, anche, nel breve termine, spunta quello che appariva un processo positivo per l’occupazione nei paesi industrializzati, sfiancata dalla globalizzazione: il rientro, in Occidente, delle fabbriche. Il reshoring, come è stato chiamato per contrapporlo all’offshoring, ha, in realtà, un ampio ventaglio di motivazioni.
Nel caso dell’industria italiana della moda, ad esempio, il reshoring si alimenta con la ricerca della qualità. Man mano che la moda italiana si indirizza, sempre di più, anziché alla produzione di massa, a quella delle fasce di alta qualità, materiali e finiture diventano sempre più importanti, a prescindere dal prezzo. Ma, in generale e a livello globale, la marcia indietro della globalizzazione, con l’accorciamento delle catene di produzione e la spinta alla specializzazione locale dei prodotti si appoggia su fenomeni più vasti. Se il boom delle comunicazioni e di Internet avevano reso praticabile e conveniente l’allungamento delle catene di produzione, a caccia di costi sempre più bassi, oggi le aziende tendono ad accorciare queste catene, per assicurare una maggiore flessibilità alle variazioni quantitative e qualitative della domanda nei singoli mercati. Se in Cina vanno di moda le borse grandi e nel Qatar quelle piccole, bisogna adeguarsi in fretta. La stampa a 3D darà la possibilità di una customizzazione sempre più mirata.
Conta, in questo processo, la manodopera a basso costo, offerta dai robot? Un dettagliato studio dell’Ocse prova a misurare l’impatto della robotizzazione sulla localizzazione delle produzioni. I risultati sono interlocutori. Lo studio non registra un impatto significativo dell’aumento della densità di robot rispetto alle modifiche delle catene internazionali delle grandi aziende e nella decisione di rimpatriare produzioni. Un impatto si vede, piuttosto, nella decisioni di offshoring, soprattutto negli ultimi anni. Fra il 2000 e il 2014, un aumento del 10 per cento della densità di robot in un paese ha comportato una riduzione dello 0,05 per cento delle scelte di offshoring delle aziende. Se però guardiamo solo al periodo 2010-2014, la frequenza delle scelte di rimpatrio aumenta di dieci volte, fino allo 0,54 per cento.
Siamo, dice l’Ocse, probabilmente solo all’inizio di un processo. Per ora, i robot hanno iniziato a rallentare la globalizzazione delle produzioni, ma non stanno spingendo il loro ritorno a casa. La previsione è che cominceranno a farlo nei prossimi anni. Con un impatto doppiamente inquietante, se stiamo nell’ottica dell’occupazione. Quelli a cui i robot fanno direttamente concorrenza, oggi, sono infatti i lavoratori dei paesi emergenti: l’aumento dei costi, legato all’aumento dei loro salari (in Corea come in Cina) è una delle radici della robotizzazione spinta in atto in quei paesi. Ma i robot significano anche, subito dopo, che le produzioni rimpatriate per sfuggire ai maggiori costi dei paesi emergenti non ricreeranno occupazione in Occidente. Quello che oggi fa il cinese, domani lo farà il robot. Per i lavoratori – soprattutto maschi – a bassa qualifica dei paesi industrializzati, il futuro resta cupo. La marea all’indietro della globalizzazione significa che diventa cupo anche per quelli dei paesi emergenti.