L’embargo sul petrolio russo? Si può fare: non è un disastro e neanche un boomerang, assicurano gli esperti della Iea, l’Agenzia internazionale dell’energia, ovvero l’organismo che, per conto dell’Ocse (l’organizzazione dei paesi industrializzati), monitora il mercato del petrolio. L’assicurazione arriva nel momento in cui l’Europa, da settimane, si tortura sulla possibilità di tagliare del tutto le importazioni di petrolio dalla Russia. Anzitutto, per stabilire se l’embargo vale i sacrifici che comporta. La risposta sta nei numeri. Il petrolio – ancora più del gas – è la gallina dalle uova d’oro dell’economia russa e il canale da cui il Cremlino più attinge per finanziare le sue spese, a cominciare da quelle militari. Nel 2021, l’export di greggio, da solo ha fornito il 45 per cento delle entrate dello Stato russo. Quest’anno potrebbe arrivare – se non ci sarà appunto l’embargo Ue, dopo quelli americano e inglese – al 60 per cento dell’intero bilancio: 180 miiardi di dollari in valuta pregiata, quella che Putin ha pochi altri modi di procurarsi. Da dove arrivano questi soldi? Per il 70 per cento, gli incassi russi dall’export di petrolio vengono oggi dai paesi della Ue.
Insomma, il petrolio è il cordone ombelicale che alimenta la politica russa e chi pompa il sangue verso il Cremlino sono soprattutto gli europei. Il problema, però, dicono gli scettici, è che, in un mercato aperto e globale come quello del greggio, tentare di colpire con l’embargo specificamente la Russia è come avventurarsi su uno snowboard in equilibrio su un piede solo: si rischia il ridicolo. In linea di principio, meno petrolio c’è sul mercato, più il prezzo sale. Già oggi, con il barile oltre i 100 dollari, i russi – cui estrarlo costa mediamente 44 dollari – anche vendendolo a sconto, vista la diffidenza che li circonda, a 70 dollari guadagnano bei soldi.
A ragionare in linea di principio, però, soprattutto in un mercato complesso come quello del petrolio, si possono anche prendere cantonate. In primo luogo, sanzioni, blocchi, proscrizioni stanno avendo i loro effetti. Ad aprile, secondo le statistiche della Iea, i russi hanno dovuto rinunciare a produrre 1 milione di barili al giorno. Ma è solo l’antipasto. A maggio arrivano a scadenza molti contratti di fornitura e per i giganti delle commodities, le grandi società di intermediazione, come Glencore e Trafigura, il greggio russo scotta: hanno paura di ritorsioni in Europa e in America se continuano a fare affari con Putin. La Iea calcola che, entro fine anno, la Russia avrà dovuto rinunciare ad estrarre 3 milioni di barili al giorno, chiudendo pozzi che, nel gelo siberiano, potrebbero avariarsi definitivamente.
Ma non potrebbe invece vendere quel petrolio in Asia, invece che in Europa? Difficile, secondo gli esperti. Gli analisti contattati dall’agenzia Bloomberg valutano che Mosca possa dirottare verso l’Asia non più di un terzo del greggio che vendeva all’Europa. Non ci sono gli oleodotti e non ci sono abbastanza petroliere. O, meglio, le petroliere ci sono, ma il mercato dei noli e delle assicurazioni in cui si devono muovere anche armatori di pochi scrupoli è tutto in America e in Europa e il rischio che Washington e Bruxelles decidano di sanzionare anche chi il greggio lo trasporta è troppo alto.
Dunque, si può strangolare il flusso di greggio che la Russia vende. Ma questo non farà alzare il prezzo, assicurando a Putin gli stessi soldi, anche con un minor numero di barili? Era vero fino a ieri, ma non sarà vero domani, sostiene la Iea. Nel primo trimestre 2022, la domanda mondiale di greggio è aumentata di 4,4 milioni di barili al giorno. Nel secondo trimestre, l’aumento sta rallentando a 1,9 milioni di barili e, da giugno a dicembre non sarà superiore, in media, a mezzo milione di barili al giorno. Che succede? I prezzi alti alla pompa raffreddano i consumi, in Occidente l’economia rallenta e, soprattutto, sta frenando, con i lockdown anti-Covid, la richiesta di greggio del cliente più assetato, la Cina. Contemporaneamente, gli altri produttori, a cominciare dagli arabi (non troppo felici di vedere i russi invadere il loro mercato di casa, cioè l’Asia) aumenteranno la produzione. La Iea calcola che, a fine 2022, l’offerta di greggio – Russia esclusa – sarà cresciuta di 3,1 milioni di barili. Esattamente quanto occorre per compensare i 3 milioni di barili a cui rinuncerà la Russia. Il petrolio non sarà meno caro, ma il prezzo non continuerà a salire, con i russi o senza.
Maurizio Ricci