Riassumendo. Stiamo faticosamente uscendo da due trimestri di recessione, solo per avviarci ad un 2019 a sviluppo zero. Idem il 2020, dove quel moncone di qualche decimale di ripresa che potrebbe manifestarsi sarà strozzato da un inevitabile giro di vite fiscale. Bisognerebbe spingere sul pedale degli investimenti, ma quelli privati sono fermi dalla scorsa estate. Gli imprenditori dicono Istat e Bankitalia, non si fidano e preferiscono, non da oggi, parcheggiare i profitti in prodotti finanziari: fra il 2012 e il 2017 i soldi investiti in beni reali sono scesi di 300 miliardi di euro, quelli messi in titoli e conti sono aumentati di altrettanto. Quanto agli investimenti pubblici, si sono persi in qualche cabina di regia e nelle risse sulla Tav. Lo stellone delle esportazioni non sembra destinato ad aiutarci. Il commercio mondiale perde colpi: meno 1,9 per cento fra l’autunno e l’inverno. E Washington soffia sul fuoco delle guerre commerciali. In patria, coviamo una crisi bancaria in una regione già sfortunata come la Liguria. E, a settembre, anche al netto delle minacce di Salvini contro l’Europa, la finanza pubblica si vedrà presentare il conto della cambiale firmata con la manovra 2019, sotto forma di una scommessa impossibile nella manovra 2020.
Ci sarebbe da non dormirci la notte, ma il governo ci arriva viola per l’apnea o, se preferite, inchiodato dalla paralisi. Raramente, una prova elettorale (per giunta, senza conseguenze immediate, come le Europee) ha determinato una paralisi così vasta e assoluta. Nessuno dei due partiti vuole far passare un provvedimento-bandiera dell’altro, che lo spinga nelle urne. Pochi credono, però, che la paralisi si dissolverà davanti ai risultati elettorali. Molti, anzi, pensano che, quale che sia il risultato delle Europee, Lega e 5 Stelle rilanceranno ognuno la propria agenda, in vista di un nuovo confronto, in elezioni generali da convocare appena finita l’estate. Qualcuno azzarda che non sarebbe il peggiore dei mali: elezioni in autunno, governo a dicembre, unica strada l’esercizio provvisorio del bilancio che congeli tutte le poste a quello già scritto nel 2019, rinviando tutte le scelte impossibili che vengono a scadenza nel 2020.
Perché impossibili? I primi a ritenerle tali sono i burocrati di Bruxelles che, forse per mancanza di immaginazione, mettono a bagno le scelte della politica italiana in una tinozza di scetticismo che più acido non si può. Solo nel caso Italia, infatti, avviene che i due pilastri su cui si regge tutto l’impianto della finanza pubblica vengano trattati come se non esistessero. Messi tra parentesi e non considerati nei conti stilati negli ultimi rapporti di Bruxelles, perché nessuno crede che quei pilastri saranno mai edificati. Eppure, senza quei due pilastri, appena ribaditi nel Documento di finanza approvato dal Parlamento ad aprile, la finanza pubblica italiana non sta in piedi. Il primo pilastro regge il debito: 18 miliardi di euro di privatizzazioni, per fermare l’apparentemente inarrestabile ascesa del debito pubblico italiano rispetto al Pil, la nostra economia. Il secondo regge il deficit: 23 miliardi di euro di aumenti dell’Iva, per pagare le spese del Reddito di cittadinanza e di quota 100 e impedire che il disavanzo travolga qualsiasi paletto del trattato di Maastricht e arrivi, l’anno prossimo, al 3,5 per cento del Pil.
Ma 18 miliardi di privatizzazioni (dieci volte le cifre che sono state ipotizzare negli anni scorsi e mai realizzate) non paiono credibili. Certo non basterebbero gli immobili. Bisognerebbe liquidare le partecipazioni pubbliche nelle grandi aziende come Eni, Enel, Leonardo. Partecipazioni che, ogni anno, portano alle casse dello Stato due miliardi di euro di dividendi, a cui pare controproducente rinunciare. Inoltre, una grande svendita provocherebbe un crollo dei prezzi. Ma, in ogni caso, quanto vale il tesoretto? Tutto, ma proprio tutto compreso, le grandi aziende a controllo pubblico hanno un valore di mercato che non supera i 23 miliardi di euro. Per mettere insieme 18 miliardi, occorrerebbe davvero pensare ad una liquidazione pura e semplice dei gioielli di famiglia.
Anche mettere in pista i 23 miliardi di aumento Iva è un incubo. L’imposta sui consumi è una tassa regressiva che colpisce di più le famiglie meno abbienti. Inoltre, strozzerebbe la domanda interna, con il risultato (accanto ad una domanda estera fragile) che l’espansione dello 0,7 per cento, prevista dai più ottimisti per il 2020, verrebbe azzerata. Eppure, quei 23 miliardi – se non in tutto, almeno in parte con l’Iva – vanno trovati, pena vedere il deficit (il conto lo ha già fatto Bruxelles) schizzare al 3,5 per cento del Pil. Ci riusciremo con una spending review? Inutile farsi troppe illusioni. La spesa pubblica può diventare più efficiente, ma non si può ridurre di molto: per la pubblica amministrazione l’Italia spende il 18,3 per cento del Pil. La media europea è il 20,2 per cento.
E, allora? Tagli selvaggi alla sanità, alla scuola, alle pensioni? Per ora, nessuno lo sa. L’aritmetica, però, è semplice. Per il 2020, bisogna trovare 35-40 miliardi di euro (per compensare il mancato aumento dell’Iva e pagare le spese già in bilancio), così da mantenere il disavanzo nell’area del 2 per cento del Pil, come promette il governo. Attenzione, però, questi 35-40 miliardi non servono a finanziare nuovi impegni, nuove spese, nuove promesse. Servono solo a pagare quanto abbiamo già impegnato e speso. Se si vuole fare altro (tipo la flat tax) bisogna trovare altri soldi. O fregarsene di Bruxelles, dei limiti al disavanzo e, magari, uscire dall’Europa.
Per uscire dall’euro, infatti, dicono i giuristi, bisogna uscire dalla Ue. Come si sta fuori? Gli inglesi, probabilmente, lo scopriranno presto. Nel frattempo, possiamo guardare ad un paese vicino, legato anche alla Ue da un patto di associazione che favorisce l’interscambio. Il paese è la Turchia. I tassi di interesse, in Turchia, vanno dal 24 per cento in su.
Maurizio Ricci