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Home - Approfondimenti - La nota - Marchionne, Trump e l’auto del futuro

Marchionne, Trump e l’auto del futuro

19 Gennaio 2017
in La nota
Marchionne, Trump e l’auto del futuro

Inizio spumeggiante, di questo 2017, per l’industria dell’auto. Sulle due sponde dell’Atlantico, i nomi delle principali case costruttrici, dalla General Motors alla Volkswagen, dalla Ford a Fca, hanno conquistato per più giorni le aperture dei notiziari radiofonici e televisivi, nonché le prime pagine dei giornali.

Va detto subito che, come vedremo, non sempre si è trattato di notizie gradite nei quartier generali dei grandi costruttori. Resta il fatto che l’auto, ovvero un prodotto industriale considerato a volte, e a torto, maturo, nei dibattiti degli ultimi decenni, si trova tutt’ora al centro di un crocevia in cui politica e innovazione tecnologica, problemi economici ed ecologici, stili di vita e modelli di consumo, strategie aziendali e modelli di business si incontrano e si intrecciano dando vita a scenari anche inattesi. Scenari che lasciano pensare che il prodotto auto abbia ancora un futuro non breve davanti a sé. Anche se, in questo futuro, ciò che sarà chiamato auto sarà forse qualcosa di diverso da ciò cui abbiamo dato sin qui questo stesso nome.

 

Un mercato che tira

Ma torniamo ai primi giorni del 2017; giorni che sono stati subito forieri di buone notizie, sul piano industriale. Ovvero sul piano di un rapporto virtuoso fra produzione e consumi. Martedì 3 gennaio, “La Stampa” sintetizza così l’andamento dell’anno appena concluso in Italia: Corre l’auto, mercato + 16% nel 2016. In particolare, Fca è cresciuta nell’anno in misura maggiore del mercato, con un + 18,39%, mentre la sua quota di mercato è cresciuta, sempre in Italia, sino a sfiorare il 30%, salendo dal 28,31 al 28,94%.

Giovedì 5 gennaio, il “Sole 24 Ore” getta uno sguardo oltre Oceano: Auto, 2016 record negli Usa: vendite al massimo storico. E sotto al titolo un articolo in cui Andrea Malan scrive che “dopo la recessione del 2008-09”, negli Stati Uniti “le vendite sono cresciute in media di un milione di unità l’anno per sei anni consecutivi, la serie positiva più lunga degli ultimi cent’anni”. Spiegando poi che il 2016 “è stato ancora sostenuto dalla buona dinamica dell’economia, dal prezzo della benzina ai minimi e dai tassi di interesse bassi”. Tutto bene, dunque.

I problemi, semmai, vengono dalla politica. Perché le elezioni, negli Stati Uniti, sono state vinte da un certo Donald Trump. Un candidato che è diventato Presidente grazie al concorso decisivo dei voti degli operai bianchi di Stati industriali come Michigan e Ohio. E che, durante la campagna elettorale, ha attaccato case costruttrici come Ford e General Motors per le loro iniziative di delocalizzazione produttiva verso il Messico.

 

Auto e politica /1: l’occupazione

E qui siamo al primo dei nodi problematici sopra indicati: il rapporto fra industria dell’auto e politica. Perché per i dirigenti politici questa industria è una cosa buona nella misura in cui fa non tanto e non solo Pil, quanto piuttosto occupazione; mentre è una cosa cattiva quando i posti di lavoro vengono tagliati a causa di crisi o di delocalizzazioni.

Tutti sanno che il ticket Obama-Biden si è fatto, fin dall’inizio della sua azione di governo, un punto d’onore di salvare l’industria americana dell’auto dalla crisi che minacciava di travolgerla a fine 2008; e nessuno può negare che tale azione sia stata coronata da un indubbio successo. Si può anzi dire che il salvataggio delle quattro ruote a stelle e strisce sia uno dei risultati più netti, concreti e duraturi fra quelli conseguiti negli otto anni della Presidenza di Barack Obama. E ciò sia perché il prodotto-auto è uno dei beni di consumo la cui diffusa proprietà invera il sogno americano, sia perché la sua produzione coinvolge ancora consistenti numeri di lavoratori sindacalizzati.

Tuttavia, nel momento del passaggio del testimone fra Obama e chi, nei disegni del Partito Democratico avrebbe dovuto succedergli, ovvero Hillary Clinton, qualcosa non ha funzionato. Il candidato repubblicano Donald Trump è riuscito a far credere ai lavoratori della Rust Belt che lui avrebbe voluto, saputo e potuto fare per il loro futuro occupazionale molto di più di Hillary Clinton, indipendentemente dal partito di appartenenza. E ha così conquistato i loro voti e, con essi, la Presidenza degli Stati Uniti.

Fin dai giorni della campagna elettorale, Trump ha propalato il suo mantra protezionista, minacciando di mettere dazi pesantissimi sulle auto eventualmente prodotte in Messico da case costruttrici americane con l’intenzione di importarle poi negli Stati Uniti. In particolare, ai primi di gennaio di quest’anno Trump lancia uno dei suoi ormai celebri tweet contro la General Motors, con accuse relative a uno specifico modello assemblato oltre confine. Quasi contemporaneamente la Ford annuncia che rinuncerà al previsto investimento di 1,6 miliardi di dollari per una nuova fabbrica da aprire, appunto, in Messico, e che ha deciso, invece, di fare un investimento da 700 milioni di dollari per rafforzare lo stabilimento di Flat Rock, nel Michigan, puntando così anche alla creazione di 700 posti di lavoro sul suolo patrio.

Domenica 8 gennaio, alla vigilia dell’apertura del Naias, il North American International Auto Show che tutti gli anni si tiene a Detroit, Sergio Marchionne, Amministratore delegato di Fca, annuncia un investimento da un miliardo di dollari per ristrutturare due stabilimenti siti, rispettivamente, uno in Ohio e l’altro nel Michighan, ovvero in due degli Stati risultati decisivi per la vittoria elettorale di Trump, creando così altri 2mila posti di lavoro.

Il giorno dopo, proprio mentre Marchionne sta tenendo a Detroit una conferenza stampa in occasione dell’apertura del salone dell’auto, Trump emette un altro tweet in cui scrive: “Grazie Ford e Fiat C”. Un modo come un altro per attribuirsi indirettamente il merito dei nuovi programmi di investimento delle due case e, soprattutto, il merito delle loro ricadute occupazionali.

Secondo vari analisti, tuttavia, tutto ciò è molto problematico. E ciò per due diversi motivi. Innanzitutto, una certa tendenza storica alla decrescita dei posti di lavoro nell’industria manifatturiera non è determinata dai movimenti di delocalizzazione verso paesi caratterizzati da un costo del lavoro più basso di quello esistente in paesi guida come gli Stati Uniti, ma da una causa più radicale: la tendenza alla sostituzione del lavoro umano con lavoro svolto da macchinari sempre più sofisticati. Ovvero, dalla tendenza a una crescita dell’automazione.

In secondo luogo, viene osservato che l’industria dell’auto può essere rappresentata come una rete integrata fatta di passaggi produttivi dislocati in diverse parti del globo. Può accadere, tanto per fare un esempio, che un’azienda di componentistica tedesca produca in Italia parti destinate ad essere montate su un’auto prodotta negli Usa da una casa americana. O che un altro costruttore americano assembli negli Stati Uniti un autoveicolo che ingloba componenti prodotte in Messico e che, peraltro, è destinato ad essere venduto sul mercato cinese. Da tutto ciò deriva che, al di là di qualche annuncio ad effetto, è molto difficile usare una politica protezionistica per rafforzare la produzione manifatturiera all’interno di un singolo paese. Infatti, da un lato, eventuali dazi da pagare per importare negli Stati Uniti componenti prodotte altrove finirebbero inevitabilmente per creare forti difficoltà alla produzione di autoveicoli negli stessi Stati Uniti. Mentre, dall’altro, questi stessi dazi potrebbero stimolare altri grandi paesi, come la Cina, a mettere a loro volta degli altri dazi volti a scoraggiare l’importazione di autoveicoli dagli Stati Uniti quale ritorsione per dazi posti a carico di altri prodotti cinesi

Morale della favola. Con Obama (e Biden) la politica ha aiutato l’industria dell’auto a stelle e striscie. Con Trump potrebbe mettergli, è il caso di dirlo, non solo dei bastoni, ma delle barre d’acciaio tra le ruote.

 

Auto e politica /2: l’ambiente

Il Naias non aveva ancora chiuso i suoi battenti, quando un fulmine si è abbattuto sull’immagine, fin lì molto positiva, della Fca. Il 12 gennaio l’agenzia americana per la protezione dell’ambiente (US EPA – United States Environmental Protection Agency) emette una nota con cui accusa la Fiat Chrysler di aver violato il Clean Air Act. Nello specifico, la contestazione mossa alla compagnia guidata da Sergio Marchionne è quella di non aver informato correttamente l’agenzia in merito a un software installato nei motori diesel della Jeep Grand Cherokee e del pick up Dodge Ram; motori prodotti da Fca nello stabilimento Vm di Cento, in provincia di Ferrara. Tale software, a protezione della longevità del motore, agirebbe, in determinate circostanze, in modo tale da rilasciare nell’ambiente dosi di gas di scarico superiori a quanto ammesso dalla legislazione Usa.

Marchionne si infuria e convoca un’immediata conferenza stampa in cui sostiene che Fca ha dato alla Epa vagonate di informazioni nel corso di un rapporto prolungato nel tempo e nega nel modo più assoluto che qualcuno nell’azienda da lui diretta abbia mai neanche pensato di voler ingannare le autorità degli Stati Uniti. In aggiunta, solleva qualche dubbio su una tempistica quanto meno singolare, dato che lo scambio di informazioni con l’Epa dura da mesi e che la direttrice dell’agenzia, Gina McCarthy, ha ormai davanti a sé solo pochi giorni di lavoro. Il suo successore, Scott Pruitt, è stato già designato dal presidente eletto, Donald Trump.

Ora, a parte le smentite ufficiali, è veramente difficile immaginare che qualcuno nell’amministrazione democratica abbia voluto fare un dispetto a Marchionne. Basta ricordare le foto di Obama in maniche di camicia durante la sua visita allo stabilimento Fca di Jefferson North, a Detroit, fatta alla fine di luglio del 2010, e la suo “Grazie, Sergio”, pronunciato quel giorno davanti a 1.500 lavoratori, per ricordarsi che il salvataggio della Chrysler, poi divenuta Fca, è uno dei momenti iconici dei suoi 8 anni passati alla Casa Bianca. E tuttavia, è anche difficile respingere l’idea che, nella nota dell’Epa, non vi sia un qualche nesso, benché più indiretto, con la politica.

Il meno che si possa dire di Trump è che non si è reso noto come un difensore dell’ambiente. Fra l’altro, l’uomo da lui scelto per dirigere l’Epa, il citato Scott Pruitt, già responsabile della Giustizia dell’Oklahoma, è considerato un negazionista rispetto alla tematica del climate change, nonché un estimatore delle virtù dei combustibili fossili. La spinta ambientalista è stata invece una delle caratteristiche dell’amministrazione Obama. E qui basta pensare alle energie spese dal Presidente democratico per convincere la Cina ad assumere un suo ruolo nella lotta contro il riscaldamento globale. Negli ultimi giorni del suo mandato, poi, Obama ha assunto una serie di misure ambientaliste, con divieti specifici contro ulteriori trivellazioni in zone di particolare interesse ecologico.

Non è quindi impensabile che, al momento di chiudere una fase di lavoro all’Epa, qualcuno della dirigenza uscente abbia creduto opportuno aprire pubblicamente un caso relativo ai rischi di inquinamento connessi a un tipo di motorizzazione che, come quella dei motori diesel, è poco amata negli Stati Uniti. Creando così un grattacapo in più per l’entrante amministrazione repubblicana.

Come è stato ampiamente spiegato, va ripetuto qui che il caso Epa-Fca non ha niente a che vedere con il cosiddetto dieselgate che ha coinvolto la Volkswagen. E ciò sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Quantitativo, perché qui si tratterebbe, in tutto, di non più di 100mila veicoli, mentre nel caso della Volkswagen si trattava di milioni di veicoli. Inoltre, l’azienda di Wolfsburg ha riconosciuto di aver inserito nei motori di alcuni dei propri modelli un software volto a produrre dei risultati falsi rispetto a eventuali esami compiuti per accertare natura e quantità dei gas di scarico rilasciati da tali modelli.

Va anche detto, però, che l’opinione pubblica è, non da oggi, sempre più sensibile alle tematiche ambientali. Non per caso, è nell’imminenza di una campagna elettorale che, dalla Germania, si sono levate voci politiche volte ad accusare il Governo italiano di aver coperto consapevolmente gli ipotetici trucchi creati da Fca. Ma il punto è proprio questo. La celerità, per non dire l’immediatezza, con cui un’accusa lanciata da un’agenzia statale al di là dell’Atlantico è diventata occasione di una polemica politica fra i Governi di due paesi dell’Unione Europea ci dice che l’industria dell’auto dovrà affrontare in modo molto serio il discorso dell’inquinamento atmosferico prodotto dai diversi tipi di motore che impiegano carburanti di origine fossile. L’argomento è scottante e sempre più lo sarà.

 

Motori elettrici e auto hi-tech

Pochi giorni prima del Naias di Detroit, e cioè il 5 gennaio, si è aperto a Las Vegas il Ces, ovvero il famoso Consumer Electronic Show. Una manifestazione che quando è nata, nel 1967, non aveva niente a che fare col mondo dell’auto ma che, da qualche anno a questa parte, è diventata un’occasione per presentare parte dei propri progetti più innovativi anche per le case costruttrici di autovetture. E ciò specie in relazione a due gruppi di nuovi prodotti: le self-driving cars e le connected cars. In pratica, le auto “connesse” e quelle che si guidano da sole (o a guida automatica).

La Fca, ad esempio, ha presentato a Las Vegas il prototipo della Chrysler Portal. Si tratta del concept di un minivan totalmente elettrico, dotato di una batteria che assicura al veicolo 400 chilometri di autonomia. Il modello, caratterizzato da un ampio spazio interno, sarà dotato anche dei frutti della collaborazione di Fca con Google per ciò che riguarda la tematica dell’auto connessa, ovvero dell’auto progettata per consentire ai passeggeri di usufruire della rete Internet e dei suoi contenuti. Quanto al guidatore, sarà supportato da un sistema di guida autonoma parziale di “livello 3”. In pratica, il guidatore potrà essere aiutato, qualora percorra un’autostrada, dal cosiddetto “cruise control adattivo” che comprende funzioni di “mantenimento corsia” e di “frenata automatica”.

Abbiamo parlato di collaborazione di Fca con Google. Tale collaborazione si svolge su diversi piani. Da una parte, le due aziende lavorano per sperimentare e potenziare sistemi di connettività volti a trasformare la possibilità di usare il tempo dei passeggeri in modo diversificato rispetto alla semplice somma della contemplazione del paesaggio e della conversazione col guidatore e altri eventuali passeggeri. In particolare, al Ces è stata esibita una berlina di Fca, la Chrysler 300, dotata dei risultati dell’integrazione fra il sistema Uconnect nella versione 8.4 e il sistema operativo Android. Dall’altro, nel maggio 2016 Google ha acquistato 100 vetture Crysler Pacifica per sperimentare il proprio sistema di auto senza conducente.

Queste relazioni plurime tra Fca e Google sono solo alcuni esempi di un ribollire di iniziative e ricerche di contatti e alleanze che, nella prospettiva della realizzazione effettiva di una generazione di auto senza conducente, vede impegnate, ad esempio, case automobilistiche come la tedesca Audi e aziende produttrici di microprocessori come la statunitense Nvidia o altre aziende del settore “tecnologico” come l’israeliana Mobileye. Per non parlare dei rapporti fra la statunitense Intel, colosso nel campo di chip e microprocessori, e le case automobilistiche tedesche Bmw, Daimler e Volkswagen.

In prospettiva, insomma, non si tratta qui solo di produrre auto non inquinanti, ma oggetti che potrebbero cambiare radicalmente il rapporto fra essere umano e autovettura. E ciò sia per il guidatore che per l’eventuale passeggero.

Una prospettiva indubbiamente affascinante. Solo che, per lavorare seriamente in questa direzione, sono necessarie risorse finanziarie molto ingenti. Risorse di cui forse nessun singolo produttore di auto oggi dispone. Ecco perché Marchionne è tornato a insistere, anche nella conferenza stampa tenuta a Detroit in apertura del Naias, sulla possibilità di una fusione tra Fca e General Motors. Fusione respinta a suo tempo, come sappiamo, dal Ceo di GM, la battagliera Mary Barra, ma che potrebbe essere vista di buon occhio proprio dal nuovo Presidente, Donald Trump. Un uomo che vuole fare un’America “nuovamente grande”, dovrebbe apprezzare, ipotizza Marchionne, la nascita di un colosso a stelle e strisce che potrebbe essere il primo produttore di auto al mondo.

Ma se questo non fosse possibile, la via da percorrere potrebbe essere non più quella classica di alleanze o fusioni fra case costruttrici, ma quella dell’integrazione fra case automobilistiche e aziende del settore tecnologico, fra Detroit e la Silicon Valley. Come ha argomentato Paolo Griseri sulla “Repubblica” del 3 gennaio, le prime hanno il know how e gli strumenti della produzione di massa, mentre le seconde hanno le conoscenze e i capitali necessari a impostare e sostenere una ricerca hi-tech di lungo periodo. Chi vivrà, vedrà.

 

@Fernando_Liuzzi

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