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Home - Primo Piano - Maria Cecilia Guerra (Pd): il lavoro ha perso il suo peso, ma potrebbe e dovrebbe riacquistare centralità

Maria Cecilia Guerra (Pd): il lavoro ha perso il suo peso, ma potrebbe e dovrebbe riacquistare centralità

di Massimo Mascini
18 Aprile 2023
in Interviste
Maria Cecilia Guerra (Pd): il lavoro ha perso il suo peso, ma potrebbe e dovrebbe riacquistare centralità

Sul futuro del lavoro non è pessimista, Maria Cecilia Guerra, responsabile dei temi del lavoro nella nuova segreteria Pd. Siamo in presenza di un vero dramma, avverte, ma qualcosa in prospettiva potrebbe cambiare, anche grazie a una possibile reazione di massa, a una qualche forma di mobilitazione.  Dietro la svalorizzazione del lavoro Guerra vede con chiarezza la scelta di cercare la competitività abbassando il costo del lavoro: si è perseguita questa politica, spiega, e le conseguenze non potevano essere diverse. Ha pesato anche la disintermediazione, inseguita anche da governi di centro sinistra, mentre in parallelo svaniva il concetto di classe operaia. Quanto al sindacato, ad avviso dell’esponente Pd è un interlocutore imprescindibile, che negli ultimi anni è stato invece messo da parte, facendo venir meno il protagonismo delle rappresentanze sociali, che era una nostra importante caratteristica.

Maria Cecilia Guerra, perché il lavoro è sparito dall’orizzonte della politica italiana?

Non è uscito dai radar di tutti i partiti: non da quello da cui provengo, Articolo 1, che si è chiamato così proprio per avere il lavoro come punto di riferimento essenziale. Ma anche il Pd mostra un’attenzione crescente, soprattutto per quanto accade a giovani e donne, i due punti di osservazione da cui si possono vedere le trasformazioni che il mercato del lavoro sta subendo.

Sì, ma questo fenomeno dura almeno da trent’anni.

Diciamo che la situazione è andata progressivamente peggiorando.

Quale è stata la molla, l’evento che ha causato questo peggioramento?

Dietro la svalorizzazione del lavoro c’è certamente il modello di sviluppo adottato nel nostro paese, basato sul contenimento del costo del lavoro come strumento per avere e mantenere competitività. Da tanti anni si entra nel mercato del lavoro con contratti che si prestano a questa visione, con sempre minori tutele. L’apice lo abbiamo visto con i voucher, nati per i cosiddetti lavoretti, poi estesi a dismisura, che hanno rincorso l’idea del lavoro merce. Nasce qui il deprezzamento del lavoro, perché il datore non ha interesse a investire sul suo lavoratore: perché non è il “suo” lavoratore, è un soggetto sostituibile.

Ci sono anche segmenti di lavoro diversi.

Certo, c’è anche lavoro di qualità. Ma il grosso dell’occupazione ha queste caratteristiche, per cui manca la volontà di investire sul lavoro e in questo modo lo si impoverisce. Con le conseguenze che conosciamo in termini di autostima, che si riverberano poi sulla qualità del lavoro svolto.

Resta una difficoltà di fondo a capire cosa è accaduto.

Non si deve dimenticare il peso della divisione internazionale del lavoro. Ma soprattutto è evidente che se si cerca la competitività sul contenimento del costo, il risultato non può essere che questo. E, certo, non c’è più nemmeno il riferimento alla classe operaia.

Il sindacato ha, almeno in parte, la responsabilità di questo decadimento del lavoro?

Il sindacato si è trovato spesso a giocare in difensiva. Non dimentichiamo che negli ultimi venti anni abbiamo avuto significative crisi economiche. Ci si aspettava una crescita continua, così non è stato. Sono aumentate le paure, la prima quella di perdere il proprio posto di lavoro. Il sindacato si è indebolito e ha compiuto scelte errate, anche se in parte obbligate. Come quella di puntare sul pubblico per fronteggiare sul piano fiscale la caduta contrattuale che si era verificata. Scelta in perdita, perché quello si acquisiva in capacità retributiva si perdeva in capacità contributiva.

Ha pesato la caduta dell’unità sindacale, la lontananza tra le confederazioni?

Ha peggiorato la situazione. Ma c’è stata soprattutto una spinta da parte della politica. Governi, anche di centrosinistra, hanno puntato sulla disintermediazione, quando invece il sindacato era un interlocutore imprescindibile. Gli incontri sono diventati una finzione, è cresciuto il rapporto diretto tra il partito dominante e la popolazione, saltando tutte le rappresentanze, anche quelle datoriali.

Ha colpito molti l’appannamento del ruolo di Confindustria.

Ma ha ancora un peso rilevante, è ascoltata, ha un ufficio studi rappresentativo, ha influenza sulle scelte di politica economica più rilevanti.

Ma sono azioni di lobby per lo più, ben lontane dalla politica economica o da quella industriale.

Sì, ma la situazione sta cambiando, perché sono in corso trasformazioni che possono portare a un rilancio, dato che stiamo toccando difficoltà notevoli, proprio legate alle trasformazioni. Abbiamo intere filiere che vanno ripensate e non possiamo eludere questi appuntamenti. Sono i settori che si, e ci, chiedono dove andare. E noi, così come anche le parti sociali, dobbiamo dare una risposta credibile.

Ma intanto si è esaurito il protagonismo politico che caratterizzava le rappresentanze sociali.

Sì, ha perso consistenza la caratteristica, propria del sindacato italiano, di prendersi in carica il lavoratore, non solo per la contrattazione del lavoro ma anche per le scelte più generali, facendo della propria azione politica e sindacale un’azione complessiva. Si è al contrario cercato di ricondurre il sindacato a occuparsi solo dei problemi del lavoro, impoverendo la realtà del sindacato.

Neanche dal governo attuale viene chiarezza. A parole afferma di voler confrontarsi con le parti sociali, mentre queste lamentano di non avere mai una vera interlocuzione.

L’errore del governo Meloni è quello di svolgere una politica di conservazione. Ha orecchio per le richieste di sostegno, si accontenta di mantenere il contatto, mentre adesso c’è bisogno di scoprire il futuro. Del resto, gli ultimi governi non hanno fatto molto di più. Per il momento non c’è consapevolezza della necessità di muoversi assieme, e invece servirebbe un’interlocuzione con le parti sociali, e questo è un impoverimento culturale. Andrebbe fatto un investimento collettivo, filiera per filiera, territorio per territorio, ma non si fa.

Parliamo di governo, ma anche le opposizioni hanno compiti altrettanto importanti.

Certo, io penso all’attività politica nel suo complesso. Anche noi che stiamo all’opposizione abbiamo la stessa necessità di promuovere l’interlocuzione con le parti sociali.

Un patto sociale triangolare potrebbe servire a risolvere questi problemi?

Astrattamente, sì, ma non mi sembra sia all’orizzonte. La frattura è molto forte, il mondo del lavoro è frammentato, difficile da rappresentare. E poi c’è il problema distributivo legato al crescere dell’inflazione. Siamo in una situazione molto particolare, livelli inflattivi così alti non ne avevamo da tanti anni e si creano effetti distorsivi perché non tutti reagiscono allo stesso modo. Alcuni settori hanno avuto e mantengono crescite dei prezzi non allineate con l’andamento dei costi. Ma di questo non si parla, ci si limita a dichiarare la necessità di evitare la spirale prezzi- salari, anche se questa non si è verificata. Il problema è che si sta cercando una via di uscita da questo fenomeno per via fiscale, ma il tema del salario reale va affrontato con la contrattazione.

Il sindacato medita di ricorrere a scioperi, vuole fare pressione. È giusto?

Il sindacato questi strumenti ha per farsi sentire. Il punto è che questi strumenti hanno un grado di mordenza tanto più forte quanto più riscuotono adesioni.

Lo sciopero contro Draghi non ebbe un grande impatto.

Fu demonizzato, ma non fu una sconfitta del sindacato. La manovra all’epoca in discussione presentava uno squilibrio molto forte, che poi almeno in parte è rientrato, proprio grazie alla pressione del sindacato, come è accaduto per la fiscalizzazione dei contributi. Certo, fu una vittoria a metà, che ha portato un equilibrio temporaneo, però un governo che volesse tornare indietro si troverebbe in difficoltà.

C’è una cosa che non riesco a capire. Tutti parlano di formazione, di quanto sia utile, indispensabile, ma pochi la fanno davvero. I fondi interprofessionali funzionano, ma con residui passivi mostruosi.

La situazione è guastata dalle competenze diffuse. La formazione ha senso se riesce a leggere le trasformazioni in atto, mentre invece, proprio per come le competenze sono frazionate, è ancora troppo legata agli sbocchi professionali. Quello che si è capito è che deve essere differenziata a seconda dei soggetti cui è diretta.

I sindacati non a caso parlano di diritto alla formazione e hanno fatto accordi in tal senso, molto significativi.

È un’azione molto importante, perché emerge in questo modo che la formazione è un processo collettivo. C’è una cosa che dovrebbe essere chiara, il concetto di flessibilità: ne abbiamo parlato sempre come la possibilità di licenziare, confondendo flessibilità con precarietà, ma ora c’è bisogno di flessibilità in senso proprio, della possibilità che imprese e lavoratori sappiano adattarsi ai cambiamenti che stanno avvenendo, anche con la formazione.

Maria Cecilia Guerra, ma lei crede il lavoro riuscirà a uscire da questa situazione di grave difficoltà?

Sì, ci riuscirà, ma non in tempi rapidi. Credo però che siamo vicini a un punto in cui cresca la consapevolezza di questo dramma, perché di dramma si tratta. Mi aspetto qualcosa di grosso, potrebbe esserci a breve una reazione di massa, una qualche forma di mobilitazione.

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