Il 7 ottobre si apre a Marghera la vertenza nazionale della chimica. Alberto Morselli, segretario generale della Filcem Cgil, cosa chiedete?
Chiediamo che la politica del Paese sia conseguente in modo concreto alla dichiarazione di strategicità della chimica e investimenti per il settore che siano in grado di rilanciare l’attenzione per questa industria, nella consapevolezza che è dall’industria chimica di base che si può avere anche a valle del sistema maggiore sviluppo. Se si rinuncia all’impresa chimica di base, invece, si rinuncia alla ricchezza che questa può produrre, alla ricerca che questa può organizzare e quindi poi assegnare a tutte le imprese a valle.
Qual è situazione del settore?
Adesso su 200mila addetti, il 16% è impiegato nelle grandi aziende, il 52% nelle Pmi e il 32% nelle imprese acquisite dall’estero. La prevalenza delle Pmi ha cambiato i connotati del settore e queste imprese, che sono a valle della chimica di base, hanno loro mercati, una capacità autonoma di competizione con i mercati internazionali. Sono imprese che intervengono in modo particolare nel benessere delle persone, direi anche collettivo, perché producono anche materiali di bonifica per intervenire laddove si sono creati disastri ambientali. Il dato sugli andamenti economici è complessivamente positivo, sono le grandi ad essere in difficoltà.
Nel documento chiedete una politica europea per il settore.
Ormai il mercato europeo è il mercato domestico. Non esiste una strategia locale per la competizione internazionale. E’ quella la dimensione indispensabile per farsi carico di investimenti, di ricerca, di regole competitive con gli altri continenti. Tra le regole c’è quella del Reach che obbliga a dire qual’è la manipolazione di un prodotto chimico finito, quali sostanze chimica ha all’interno. Questa trasparenza nella conoscenza del prodotto serve a rendere la chimica più accettabile. Si ha sempre l’idea che la chimica sia brutta, sporca, cattiva e inquinante, ma c’è anche l’intervento positivo. Certo non mi sfugge che lo sviluppo negli anni ‘50-‘60 ha avuto anche articolazioni negative nell’impatto ambientale. E’ necessario recuperare questo problema e bonificare gli ambienti. Quando parlo di investimenti, di nuove possibilità di sviluppo del settore, è chiaro che non si possono fare con le tecnologie del passato.
Accusate il Governo di essere stato poco attento al settore, cosa non si è fatto?
Ci sono due punti centrali che sono stati abbandonati. Il primo è l’osservatorio sulla chimica presso il ministero delle Attività produttive, istituito dal Governo precedente, che serviva a capire cosa succedeva, quali investimenti fare e dimostrava che c’era attenzione strategica per questo settore. In questi anni è stato preso a riferimento solo per affrontare le singole crisi, ma non ha prodotto risultati concreti.
E il secondo punto?
L’ osservatorio aveva prodotto anche una metodologia di intervento, ovvero gli accordi di programma che servono a individuare la problematica principale su cui intervenire per il singolo sito produttivo. Mette insieme il Governo centrale, i governi locali, le imprese e i sindacati ed elenca le misure da adottare, come si finanziano, a chi competono le singole decisioni. Ci siamo trovati a dover registrare, che la decisione di un singolo attore è in grado mette in discussione tutto l’accordo di programma. A Marghera, la mancata autorizzazione di Galan a sostituire nella produzione del cloro le vecchie tecnologie provoca una crisi non solo a Marghera, ma l’effetto si produrrà su tutti gli stabilimenti della filiera produttiva. Gli accordi di programma, per essere realizzati, devono essere più veloci, tempestivi e semplici.
L’anno scorso i rapporti unitari nella vostra categoria sono entrati in crisi, qualè la situazione ora?
E’ sempre il merito a fare la differenza. Le crisi nei rapporti non sono mai umorali, hanno sempre una causa scatenante. Quando invece la situazione governa il merito, intendendoci in maniera esplicita su ciò che riteniamo giusto fare, su come intendiamo muoverci per raggiungere l’obiettivo, le condizioni sono e restano positive. Noi non chiediamo abiure a nessuno, né siamo noi disposti a farlo. Siamo convinti che ogni organizzazione, quando assume una posizione, lo fa leggendo la società con intelligenza, affrontando la situazione con gli strumenti che ritiene necessari. Oggi abbiamo trovato una condizione per dire che il lavoro deve essere stabile, che dal declino industriale bisogna passare allo sviluppo, che il contratto deve essere fatto mantenendo il valore fondamentale del livello nazionale senza rinunciare alla contrattazione locale, anzi allargandola, ma concentrandosi sulla necessità di qualificarla. Avendo trovato delle ragioni che ci dicono che possiamo lavorare bene insieme, lo facciamo con soddisfazione. Quando queste condizioni sono sul tappeto, le bandiere di organizzazione supportano quelle unitarie.
Continua il dibattito sulla riforma del modello contrattuale, la vostra esperienza può aiutare?
Io non sono d’accordo nel dire che l’accordo del ’93 sarà modificato. Vedo che hanno firmato il contratto degli alimentaristi nel rispetto del protocollo del 23 luglio e noi presentiamo una piattaforma che rispetta quelle regole fondamentali. Il nodo sta nel chiedere il rispetto di quell’accordo in mancanza della politica economica che esso prevedeva. Perché quell’intesa non è solo tra sindacati e Confindustria, ma anche con il Governo. Non si può chiedere di applicare l’accordo del ’93 solo per contenere i salari.
E sul tema della redistribuzione della produttività?
Io non penso che la dimensione aziendale sia in grado di redistribuire tutta la produttività che un settore è in grado di produrre. Anche la dimensione nazionale debba farsene carico. E’ chiaro che la cosa è diversa da settore a settore. La nostra esperienza dice proprio questo. Nelle aziende dove non si fa la contrattazione aziendale, quelle sotto i 100 dipendenti, il nostro contratto nazionale prevede già una quota di salario che risponde all’esigenza della produttività non ridistribuita, proprio perché si riconosce la difficoltà a fare in quella dimensione accordi aziendali. Io lo vivo anche come un mio limite, mi piacerebbe fare la contrattazione dappertutto. Ma, anche se venisse superata questa difficoltà, rimane sempre una parte di produttività del settore che non sarà mai recuperata dalla singola impresa. Perché nelle aziende si vive anche una sfida sulla crescita. Non si destina tutta la parte dell’aumento di produttività al salario, perché vanno fatti anche gli investimenti. Poi bisogna vedere se la produttività c’è. Il problema della competitività esiste, bisogna capire come affrontarlo. Non ci possono chiedere di scaricarlo tutto sui salari, la soluzione che sta invece nella qualificazione delle imprese. Noi partecipiamo alla discussione facendo le piattaforme, presentandole e negoziandole.
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