Oddìo, arriva Trump. I più si sentono come se stessimo sporgendoci su un abisso oscuro: gli ottimisti pensano che resteremo aggrappati al ciglio, i pessimisti che ci cascheremo sicuramente. Per l’Europa, il futuro è all’insegna dell’incertezza. Azzerate le speranze di uno sforzo mondiale decisivo contro il riscaldamento climatico; ridimensionate le garanzie di difesa militare; scontata la prospettiva di una guerra commerciale, a colpi di tariffe. Sui dazi, infatti, nessuno pensa che Trump tornerà indietro sugli annunci (al 60 per cento sui prodotti cinesi, fino al 20 per cento per gli altri) dei mesi scorsi. Il dubbio è se sarà una guerra a tutto campo o se la strategia – anche più insidiosa – della Casa Bianca sarà di dividere l’Europa, facendo balenare accordi di esenzione (tipo: dazio sulle auto tedesche, ma non sulla franco-italiana Stellantis).
In ogni caso, la politica delle dogane annunciata da Trump si presenta come un gigantesco esperimento su cui il giudizio degli economisti di professione (un po’meno quello degli esperti nel mondo finanziario) è compatto: una palla floscia, se non un boomerang. Secondo il Piie, un autorevole centro studi, il mix di dazi e di sgravi fiscali mirati sui più ricchi costerà, in media, alle famiglie americane, 2.600 dollari l’anno. Secondo il Fondo monetario internazionale, peserà, in totale, sul Pil dei prossimi due anni fino all’1,6 per cento, una incidenza non piccola per una economia che oggi viaggia al 3 per cento l’anno, ma che pare destinata ad un inevitabile rallentamento, dopo la corsa post-pandemia.
Quello su cui gli economisti sono, però, divisi è sul motivo esatto per cui la strategia di Trump non dovrebbe funzionare e, invece, il punto è cruciale, perché è probabile che l’appello del neopresidente al protezionismo scateni una corsa all’emulazione, che darebbe combustibile di lungo periodo alla guerra commerciale. Il problema è che, in economia, tutto si tiene, in un gioco di rimandi e contrappesi ed è decisivo su quale segmento del percorso ci si concentri.
I dazi sono la risposta di Trump alla sua ossessione sul peso del deficit commerciale americano. L’idea è che, tassando le importazioni alla frontiera, si costringono le aziende estere (ma gran parte delle vendite degli stranieri negli Usa sono, in realtà, di filiali estere delle stesse multinazionali americane) ad abbassare i prezzi dei loro prodotti, per assorbire il dazio e restare competitivi sul mercato americano. Minore prezzo alla frontiera, minore deficit. Ma l’esperienza dei dazi imposti da Trump nel 2018 mostra che non è vero. Le aziende estere mantengono inalterati i prezzi alla frontiera e il maggior costo dei dazi viene scaricato sul consumatore americano, che paga di più il prodotto al dettaglio. Anche perché le aziende concorrenti americane si guardano bene dallo sfruttare il vantaggio competitivo e alzano di conserva i loro prezzi: è quanto è avvenuto, ad esempio, per le lavatrici cinesi ed americane. Anzi, aumentano anche i prezzi dei prodotti contigui: nel 2018 ci furono rincari anche sulle lavastoviglie che, pure, non pagavano dazio. Per questa via, inoltre, si alimenta l’inflazione, forse la preoccupazione maggiore che desta la politica di Trump.
Insomma, è probabile che la raffica dei dazi abbia effetto zero sul deficit commerciale. Ma ammettiamo che, invece, il dazio funzioni e faccia diminuire le importazioni o, comunque, il loro costo. A beneficiarne sarà il dollaro, visto che ce vogliono di meno per pagare le importazioni. Ma un dollaro più forte penalizza le esportazioni delle industrie Usa. In altre parole la tassa sulle importazioni si trasforma in una tassa sulle esportazioni e il deficit commerciale non cambia.
Al fondo, ci sono i grandi equilibri storici della economia Usa. Gli americani spendono più di quanto producono, ecco perchè la bilancia commerciale è in rosso. Questa distanza fra la domanda e il reddito prodotto internamente viene tradizionalmente colmata dai fondi che arrivano dall’estero, in particolare per essere investiti nei titoli del Tesoro. Come funziona? In realtà, le famiglie americane non spendono più di quanto guadagnano e neanche le imprese. Lo scialacquatore è lo Stato che ha un disavanzo di bilancio vicino al 7 per cento del Pil.
In termini macroeconomici, dunque, se vuole sanare il deficit commerciale, Trump dovrebbe ridurre il disavanzo pubblico. E’ la missione in cui si è imbarcato Elon Musk, ma, nonostante la sua furia iconoclasta, i margini di manovra sono praticamente inesistenti, come ben sappiamo noi italiani, che di revisioni della spesa pubblica puramente cosmetiche abbiamo esperienza ultradecennale. Il 70 per cento della spesa pubblica americana va alle pensioni, all’assistenza sanitaria per poveri e anziani, ai sussidi di disoccupazione e di povertà. Un altro 12 per cento al Pentagono. E il 6-10 per cento a pagare gli interessi sul debito pubblico. E quel che resta diventano spiccioli se si guarda all’altro lato del bilancio, le entrate, dove Trump ha preparato un ampio programma di sgravi fiscali, il cui risultato finale sarà, invece, un massiccio contributo al deficit.
Queste le radici dello scetticismo della corporazione degli economisti verso i programmi di Trump. Da qui ad aspettarsi un botto a breve scadenza, tuttavia, ce ne corre. E’ un veleno, dicono, che si diffonderà lentamente.
Maurizio Ricci