Ogni anno, senza mai una pausa, la Legge di bilancio apre il capitolo previdenziale. Se è vero che viviamo nell’epoca dell’incertezza, questo è uno degli indicatori più evidenti.
Una causa è di natura tecnica: alla ricerca di un fine tuning delle risorse si moltiplicano le casistiche, le eccezioni e le invenzioni al limite della presa in giro, come le “finestre”; il risultato sono 13 percorsi principali con molte ulteriori articolazioni. Ma l’errore di fondo è chiaramente politico: si manovra la previdenza come una qualunque voce del bilancio statale, sottovalutandone l’effetto destabilizzante. In un paese in cui i lavoratori over 50 sono circa il 38% si ottiene lo spaventoso effetto di una lotteria di Capodanno, da cui dipenderà per tanti la maggior parte della vita rimanente; per i più giovani si consolida la convinzione che investire in previdenza non serva a nulla, “tanto per noi la pensione non ci sarà”. Purtroppo, anche per molti economisti la voce previdenziale è una spesa tra le tante e, date le dimensioni, considerano normale assoggettarla alla manovra annuale.
Benché non lo sia tecnicamente, la pensione è invece un debito implicito dello stato nei confronti dei suoi cittadini e il miglior sistema possibile sarebbe quello sostenibile nel lungo periodo, ma anche prevedibile e stabile nel medesimo orizzonte.
In Italia la via praticabile sarebbe tracciata da tempo, dal 1995: il passaggio al sistema contributivo.
Il sistema misto, di durata esagerata, ha compiuto i trent’anni, la porzione retributiva si riduce perciò a circa un quarto del totale. Se si rinunciasse al tormentone di fine anno, non sarebbe difficile realizzare una riforma equa e semplice, applicando definitivamente a tutti (magari con una decorrenza tale da evitare un altro fenomeno degli “esodati”) il sistema contributivo. Eliminando le eccezioni, il calcolo sarebbe basato sui contributi versati e sull’aspettativa di vita, con il solo limite di un importo pensionistico troppo basso per poter essere erogato senza la necessità di un’integrazione sociale. Se poi si ritenesse necessario compensare alcune categorie di lavoratori (per attività usuranti, per genere, per età o altre motivazioni) la Legge di bilancio annuale potrebbe destinare somme a titolo di contributi che, al momento del pensionamento, confluirebbero nel montante totale.
L’obiezione che viene spesso opposta è quella di una corsa al pensionamento, con effetti sui saldi di cassa nei primi anni. Negli ultimi tempi, tuttavia, è prevalsa una visione più a lungo periodo della sostenibilità di deficit e debito degli stati, che un sistema previdenziale certo e stabile renderebbe più solida. Non è detto quindi che gli effetti sul debito pubblico, anche se crescente nei primi anni di applicazione della riforma, debbano essere negativi. Nei primi anni di applicazione si potrebbe anche mantenere un requisito di età o di anni di contribuzione, per ricostruire una fiducia nel sistema, la cui assenza porta oggi ad anticipare le domande di pensionamento.
L’altra obiezione viene dallo spirito egalitarista di chi sostiene che favorirebbe chi guadagna di più, poiché potrebbe raggiungere in tempi più brevi l’importo minimo per il pensionamento. Parliamo tuttavia dei pochissimi, i dirigenti e qualche categoria di professionisti, che hanno elevati redditi da lavoro, mentre gli altri redditi, come quelli immobiliari e finanziari, non avrebbero alcuna influenza.
E parliamo di lavoratori privi di protezioni sostanziali, che lavorano fino a che il mercato del lavoro ne apprezza le capacità.
Occorre poi ricordare che la riforma Dini del 1995 non ha introdotto solo il sistema contributivo, ma anche la previdenza complementare. Anche su questo fronte l’applicazione rimane limitata, non universale e con l’anomalia del TFR tuttora irrisolta.
Non vedo segnali positivi. Sulla previdenza complementare la Legge di bilancio pare (c’è sempre la suspense dell’ultimo minuto) possa riaprire il silenzio-assenso per i neoassunti. Anche i lavoratori che hanno iniziato a versare contributi dopo il 1995 cominciano a essere soggetti a limitazioni ed eccezioni, ma soprattutto, come ogni anno, va in scena il tormentone con le due solite parti: chi dice “in pensione più presto!” e chi ribatte “i conti in ordine!”.
Caratteristi con la battuta ripetitiva, che non solo non fa ridere, ma lascia l’amarezza di una previdenza sempre precaria.
Mario Mantovani



























