Il diario del lavoro avvia con questa intervista un ragionamento a più voci sul nuovo modello di sindacato che la crisi, ma più in generale il cambiamento profondo della società e dell’economia stanno imponendo. Paolo Pirani, segretario confederale della Uil, crede in un compito molto diverso dall’attuale per il sindacato. Lo vede più attento ai problemi dei lavoratori, meno ideologico, più reattivo verso le richieste della base. E su queste basi crede debba essere trasformata anche la contrattazione, compresa quella salariale.
Pirani, che giudizio sulla manifestazione della Cgil?
Ha evidenziato tutti i limiti di un certo modo di impostare l’azione del sindacato.
Quali limiti?
Non sono difficili da vedere. Basta riflettere sul fatto che si è giocato tutto sul confronto con la manifestazione di Cofferati del 2002. Con l’esito che, al di là degli aspetti organizzativi, che hanno segnato un punto a favore di Cofferati, c’è da dire che quella manifestazione aveva avuto un’incidenza politica e sindacale molto più ampia di quella dell’altro giorno. Quella mobilitazione fu davvero un problema per il governo, per la Cisl, per la Uil.
Vuol dire che la manifestazione del 4 aprile è stato un flop?
Politicamente non ha inciso sul popolo della Cisl e della Uil e ha diviso l’opposizione, mentre la manifestazione del 2002 l’aveva unita. Quindi è stata inefficace e potrebbe consentire adesso al governo di continuare a decidere e poi chiamare il sindacato per informarlo delle decisioni già prese.
Il sindacato è adesso più debole?
Rischia di esserlo perché la divisione la paghiamo tutti. E la distribuzione delle ragioni e dei torti non consola dalla constatazione delle nostre debolezze. Penso piuttosto che dovrebbe essere aperta una riflessione sul fatto se sia o non sia alle nostre spalle la convenzione politica che attribuiva a Cgil, Cisl e Uil il monopolio della rappresentanza sindacale e caratterizzava su basi politiche le ragioni dell’unità sulla base del rapporto che di volta in volta qualcuno dei contraenti quella convenzione decideva di avere con la politica.
Mi sta dicendo che è passata una stagione?
Il sindacato deve fare un salto di qualità, confrontarsi con i cambiamenti sociali ed economici intervenuti, con un assetto politico e istituzionale molto diverso.
C’è sempre spazio per il sindacato?
La società italiana ha bisogno del sindacato, ma è cambiato il perimetro della rappresentanza. Un tempo al sindacato si dava una delega ampia, che sfiorava la delega politica: adesso tutto questo non c’è più e chi si
attarda è destinato alla sconfitta.
Come deve cambiare il sindacato?
Deve liberarsi delle ideologie, essere più pragmatico, capire che i lavoratori ti danno la delega in base ai risultati che pensano di avere da te. Significativo il caso Piaggio. La Fiom era maggioritaria, non ha firmato l’accordo, ma i lavoratori hanno ritenuto che quell’accordo fosse la risposta migliore ai problemi dell’azienda, tutti, anche i precari.
Quindi un sindacato attento ai problemi reali dei lavoratori?
E’ il modello di relazioni industriali nel quale mi ritrovo, basato sulla partecipazione, sul ruolo degli enti bilaterali, in prospettiva anche sul trasferimento alle parti sociali di pezzi di welfare, la previdenza integrativa, la sanità integrativa, e anche su accordi come quello della Luxottica.
E’ un cambiamento radicale delle politiche?
Una volta il fordismo imponeva l’egualitarismo salariale e il punto unico di contingenza. Adesso prevale un senso diverso di valore del lavoro, che deve tradursi anche in diverse rivendicazioni sindacali. La contrattazione nazionale deve valorizzare gli aspetti della condivisione, la contrattazione aziendale deve valorizzare il merito, la disponibilità alla formazione, l’impegno che si mette nel lavoro, la capacità di padroneggiare l’innovazione, un diverso rapporto con l’orario di lavoro.
Questo diminuisce l’impatto solidaristico della contrattazione.
Si deve salvaguardare il potere di acquisto del salario, ma questo deve poi differenziarsi in base al merito e a quegli altri parametri che ho indicato.
I lavoratori sono d’accordo su questa trasformazione?
Nella loro concretezza sanno capire la differenza tra queste impostazioni. Lo hanno dimostrato alla Piaggio.
Che è però un’azienda.
Sì, ma ce ne sono altre, a cominciare dalla Ferrari. Ma bisogna considerare anche come attraverso la bilateralità deve avvicinarsi il welfare ai bisogni dei lavoratori, per la previdenza, l’assistenza al reddito, la sanità, e ancora, lo studio dei figli, l’opportunità di fare acquisti assieme. Penso a un sindacato che davvero si occupi dei problemi delle persone che lavorano.
Ma questi non sarebbero compiti dello Stato?
In termini generali, ma non si può escludere per la società di oggi la sussidiarietà, che non può vivere solo nei rapporti tra Stato e regioni, ma anche nei rapporti con le parti sociali.
Lei propone un sindacato tutto diverso, di più, un modello sociale differente da quello che abbiamo conosciuto. Ma le confederazioni che abbiamo oggi sono in grado di compiere questa svolta?
Va battuto il conformismo che impera oggi nel e tra i sindacati. Dobbiamo scegliere con decisione la via di una democrazia superando la vecchia dicotomia tra il sindacato organizzazione e il sindacato movimento. Con passaggi ben chiari, già attuati nella pubblica amministrazione, ma da estendere a tutto il mondo del lavoro.
Quali sono le scelte da attuare?
Va certificata la rappresentanza e vanno eletti i rappresentati, troppo spesso nominati. Vanno decisi i confini dell’azione dei sindacati, scegliendo tra la democrazia delegata e quella diretta, a favore della prima.
Che significa?
Che ha un senso un referendum in un’azienda, dove sono ben chiari i confini di chi è chiamato a votare, mentre in una categoria o in un ambito più vasto un referendum rischia di essere poco più di un sondaggio di opinioni.
E come ci si deve comportare in questi casi?
Deve valere il voto degli eletti, la democrazia delegata.
Questo sindacato potrebbe superare la crisi che stiamo vivendo?
Sì, un sindacato che non rifiuta il conflitto, insito nel processo democratico, ma chiude l’idea dell’antagonismo ed è in grado di proporre in termini concreti l’idea di giustizia sociale che è propria del sindacalismo confederale. Deve essere la vera risposta alla crisi economica, dalla quale si deve uscire con una società più giusta.
Un cambiamento doloroso?
Il vecchio modello deve essere messo in crisi, altrimenti vi resteremo prigionieri, senza sapere quali potrebbero essere gli esiti di questa caduta.
Ma il sindacato confederale è forte.
Sì, ma questo nostro insediamento profondo può entrare rapidamente in crisi se risultasse incapace di rispondere alla crisi. Per questo la rivoluzione che indico è indispensabile. La Uil deve essere un soggetto proponente di un processo costituente di un nuovo modello sindacale. L’asticella va posta più in alto.
C’è consapevolezza di questa esigenza nel sindacato?
A parole sì, nelle corrette applicazioni no. Paradossalmente i più consapevoli sono gli esponenti della sinistra della Cgil, che proprio per questo si pongono in termini radicalmente opposti, perché temono quei cambiamenti.
Massimo Mascini
6 aprile 2009