In Italia è esplosa con rilevanza assoluta la questione salariale. Non solo i dati e i confronti internazionali, ma la materiale e concreta vita di molti lavoratori oggi ci dicono come la lunga stagnazione salariale sia diventata problema sociale acuto.
Il brillante libro scritto in forma di dialogo a 4 mani da Andrea Garnero e Roberto Mania intitolato proprio “La questione salariale” è con merito diventato il centro strutturato di questa riflessione collettiva e pubblica, che aiuta tutti ad analizzare le complesse ed articolate cause.
Dico subito che Garnero e Mania acquisiscono il grande merito, non frequente in un Paese di tifoserie e di tesi portate avanti a prescindere, di sviscerare con oggettività e nel profondo le plurime questioni che da tempo hanno frenato la crescita salariale, con molte argomentazioni, senza cercare facili colpevoli e senza avanzare ricette facili o semplicistiche.
E’ un libro importante, attorno al quale va intrecciata una discussione pubblica robusta.
Resta il fatto che attorno alla emergenza salariale in Italia non serve indignazione e dalle analisi occorre passare a possibili azioni e soluzioni che invertano la tendenza.
Cominciamo a entrare nel merito. Rispetto alle tesi sostenute da Garnero e Mania vorrei evidenziare alcune osservazioni a mio parere oggettive e pertinenti:
Negli ultimi 20 anni le politiche sociali e contrattuali in Italia si sono mosse attorno alla priorità occupazione. Giustamente. Far crescere i tassi di occupazione, difendere i posti di lavoro a rischio globalizzazione (anche con accordi di “compatibilità”) è stato importante e necessario. Le politiche salariali hanno scontato questa diversa centralità
Negli ultimi 20 anni in Italia non c’è stata crescita né aumento della produttività. Il problema non è solo l’eccesso di PMI (certamente un fattore frenante, ma per cambiare la conformazione del tessuto produttivo credo servano decenni). E’ stata anche l’assenza di politiche per l’innovazione e la bassa capacità manageriale con cui sono gestite le imprese italiane le cause della stagnazione
Il lavoro in Italia, e il suo costo, sono compressi perché devono pagare pegno a fronte di costo dell’energia più alto in Europa, burocrazia, costo del credito, mancanza di infrastrutture, basse competenze, costi della giustizia, ecc. Il peso della competitività sta tutto sulle spalle delle buste paga di chi lavora
L’occupazione è cresciuta in settori a bassissimo valore aggiunto: terziario non di mercato, turismo, logistica, servizi di cura
Sono sottovalutate alcune criticità croniche del mercato del lavoro italiano: il lavoro grigio ed informale, l’elevato peso di un lavoro autonomo (il doppio che in altri Paesi europei) spesso poco professionale e molto precarizzato, le complessità nel gestire una impresa al Sud, la svalutazione totale del lavoro di cura (badanti, assistenti sociali, cooperative, case di riposo, ecc.) abbandonato a sè stesso al contrario di altri paesi europei
Il sottoinquadramento dei lavoratori schiacciati tra sistemi di classificazione per lo più obsoleti e contenuti di risultato espressi sul lavoro in crescita è una vera piaga del lavoro italiano che colpisce ben più dei contratti pirata
L’attenzione posta a quanto poco è pagato e riconosciuto nelle gerarchie aziendali il lavoro dei giovani è importante e richiede la costruzione di percorsi di crescita e remunerazione chiari e incentivanti per gli stessi
La stagnazione dei salari in Italia è frutto di medie (in un’epoca di polarizzazioni sempre meno rappresentative) dietro le quali i salari nel mondo manifatturiero e dei servizi di mercato (banche, energia, ecc.) hanno avuto risultati positivi, mentre hanno sofferto molto i dipendenti della Pubblica Amministrazione (qui sì lo Stato ha colpe) e il terziario generico
La sottovalutazione dei risultati della contrattazione aziendale e decentrata va rivista. Dobbiamo imparare a considerare non il numero di imprese ma il numero di lavoratori coinvolti dalla stessa e vedremo come questi siano in crescita, anche in settori parcellizzati come l’artigianato, l’edilizia, l’agricoltura
Non avendolo fatto saggiamente gli autori del libro, nemmeno io intendo misurarmi con possibili soluzioni o ricette.
Posso dire che sindacalisti che chiedono poco non ne conosco. Il problema è sempre quali risultati è possibile ottenere. La questione salariale in Italia è molto complessa.
Negli anni di alta inflazione quali quelli che abbiamo appena attraversato non è mai facile conquistare salario. Soprattutto se chi governa non restituisce il fiscal drag ingiustamente prelevato dall’aliquota marginale.
La crisi dell’offerta di lavoro che sposta più potere a chi lavora e a chi cerca lavoro rispetto al passato è un fenomeno positivo da sfruttare per far crescere i salari reali. Se non ora quando?
Certamente la questione salariale è questione sindacale. La contrattazione collettiva ha una sfida ancora più importante da affrontare.
Occorre puntare a rendere visibile e a far crescere la catena del valore del lavoro in ogni filiera, per meglio remunerarlo e fare un patto con le imprese che il valore del lavoro non va soffocato da fisco e altri costi, ma va liberato.
Il sindacato italiano e le sue categorie hanno tutte le energie per produrre una azione e vincere questa sfida.
PS: Rispetto alla teoria di Roberto Mania sul sindacato confederale italiano uno e trino credo che questo sia un valore, non un difetto né schizofrenia. I sindacati del Nord Europa hanno alti tassi di sindacalizzazione non per le politiche contrattuali o gli scioperi generali ma per l’alta qualità di servizi ai lavoratori (protetti adeguatamente dallo Stato): ma di questo ne parleremo un’altra volta.
Roberto Benaglia