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Home - I nuovi manager - Regina, l’Italia non è un paese per manager, ma qualcosa sta cambiando

Regina, l’Italia non è un paese per manager, ma qualcosa sta cambiando

27 Aprile 2010
in I nuovi manager

Sul fronte della disoccupazione l’Italia mostra dati meno preoccupanti di altri Paesi europei ed anche degli Stati Uniti, ma la fase che stiamo attraversando è comunque complicata e non ci sono mai state tante professionalità così differenti e qualificate sul mercato del lavoro. L’aumento della disoccupazione ha colpito in modo molto significativo i dirigenti industriali; in particolare, i dati relativi alle cessazioni dei rapporti di lavoro sottolineano la necessità di intervenire concretamente su questo aspetto. Nel 2009 la disoccupazione dirigenziale ha continuato a crescere e le previsioni 2010 anticipano lo stesso andamento. Si prospetta concretamente una fase di jobless recovery di non breve durata. La jobless recovery sembrerebbe una contraddizione in termini: nel passato ogni fase di ripresa del ciclo economico ha prodotto nuova occupazione, anche nelle posizioni apicali e manageriali, mentre oggi la carenza di opportunità occupazionali si ostina a rappresentare il vero problema del momento. Le imprese, ancora frenate ad investire, devono accrescere la produttività sacrificando impieghi. E’ cronaca degli ultimi mesi – non ancora del tutto svuotata dei suoi contenuti – come la crisi abbia evidenziato le debolezze di un sistema economico che ha affidato a pochi manager obiettivi ambiziosi a breve e brevissimo termine, determinando effetti di esasperato apicalismo e producendo distorsioni nei meccanismi di retribuzione. Questo ha indotto ad identificare i dirigenti come i principali responsabili della crisi, sollevando nei loro confronti anche una campagna di opinione sfavorevole e a tratti aspra, che sta proseguendo. Non si può poi non sottolineare come alcune operazioni più ragioneristiche di controllo dei costi abbiano indotto le aziende a sacrificare competenze che ora che l’economia riprende il suo percorso di crescita mostrano, soprattutto in alcune funzioni aziendali legate ai processi di innovazione e di posizionamento su nuovi mercati, il loro valore e la loro capacità di contribuire ad un rilancio effettivo delle strutture produttive. Dunque non si può prescindere da un indispensabile ripensamento del ruolo e del futuro dei profili manageriali nella fase economica che stiamo attraversando; vale in questo senso il modello di bilateralità che abbiamo via via costruito con Federmanager per offrire alle imprese ed ai dirigenti opportunità condivise di crescita e di  sviluppo, in una logica che sottintende un’impostazione al tempo stesso economica e sociale, di occupabilità e di adattabilità alle esigenze diverse del mercato. E vale ugualmente quell’insieme di azioni che si identificano nelle attività di Fondirigenti, dell’Agenzia del Lavoro e della Cabina di Regia fra Associazioni di Confindustria e Federmanager che hanno quale denominatore comune la realizzazione delle migliori opportunità per il reinserimento – in tempi non lunghi – dei manager che hanno perso la loro occupazione, attraverso processi di assessment ed interventi formativi orientati sia sulla motivazione al cambiamento sia sullo sviluppo di competenze manageriali indirizzate a differenti dimensioni di impresa o a nuovi mercati di riferimento. Perché, non dimentichiamolo, la durata della disoccupazione è una variabile direttamente correlata alla sfiducia, alla perdita di know how e ad un progressivo allontanamento dal mercato del lavoro stesso di un capitale umano di qualità, di un patrimonio di conoscenze strategiche necessarie in questa complessa fase economica.
Dovremmo poi rapidamente allontanarci anche dallo slogan: “il nostro non è un Paese per manager”. Se guardiamo alle statistiche in fondo già sapevamo che rispetto ad altri Paesi europei i numeri – circa 125.000 dirigenti del settore privato in 27.000 imprese, delle quali 17.000 manifatturiere – sono numeri molto contenuti per un Paese ad alta vocazione manifatturiera. Le cause sono altrettanto note: la piccola dimensione di impresa, la scarsa attitudine delle aziende a trasferire un manager sul ponte di comando. Basti pensare che solo l’1,3% dei nostri capi di industria è un manager esterno. Si tratta di un fattore sul quale, troppo spesso, incidono passaggi generazionali difficili, timori di riorganizzazioni e di ridefinizione di ruoli fra persone che non appartengono alla “famiglia imprenditoriale”. Tuttavia il dato nuovo è che questa crisi economica sta producendo una sorta di rivoluzione culturale proprio presso le aziende di minore dimensione. Sono i numeri a confermarci il trend: nel corso del 2009 tra le aziende che hanno nominato dirigenti è aumentato proprio il peso di quelle che non ne avevano e quindi hanno assunto il primo ed unico dirigente per fronteggiare meglio la crisi ed aumentare la capacità di competere. E spesso si tratta di manager che, usciti da grandi imprese, si ricollocano in piccole o medie aziende portando competenze, know how ed esperienze indispensabili per il salto di qualità.
E’ questo un percorso che l’Unione degli Industriali di Roma sta supportando con decisione grazie al progetto messo a punto con il Sindacato Romano Dirigenti (SDRAI) – il “Programma di formazione per dirigenti da ricollocare nel mondo delle PMI” – che prevede la realizzazione di attività formative specifiche che sviluppino soft skills di ex dirigenti di grandi imprese del territorio di Roma e del Lazio per renderli compatibili con i modelli culturali ed organizzativi delle PMI.  Un progetto ambizioso che è stato condiviso anche a livello nazionale, una best practice ripetibile in altri contesti territoriali, che scommette ancora sul sistema delle PMI per realizzare una struttura economica e sociale solida e duratura. Parafrasando l’invito dei maggiori economisti statunitensi che sollecitano le imprese a contribuire al vero rilancio di una “economia a posto senza perdere il posto”.
Se, più in generale, interpretiamo il punto di vista delle aziende, va detto che – di certo – in questa fase è vietato sbagliare. Ogni selezione di candidati in posizione di responsabilità richiede infatti un lavoro di analisi molto attento per comprendere quali siano le reali esigenze delle singole imprese: prima lo studio dei processi di internazionalizzazione e di riorganizzazione per far ripartire il mercato, poi l’individuazione del manager. Con una precisazione non irrilevante. In questi ultimi due anni il mercato del lavoro ha imparato in fretta che la perdita del posto di lavoro dei dirigenti non è più una colpa. Quindi esistono reali possibilità per le professionalità qualificate che hanno grande motivazione e positivo desiderio di riconquista del proprio ruolo e che sono di conseguenza  indirizzati a dimostrare – così come accade in molti contesti internazionali – che il momento storico ha determinato lo stato di disoccupazione, che oggi può essere temporaneo. Molte delle aziende che hanno razionalizzato gli organici infatti stanno intervenendo sui loro organigrammi e sui posti chiave per affrontare la nuova fase che seppure con alcune vischiosità si sta oggi finalmente aprendo.
Ed è importantissima un’ultima considerazione: fra 5 anni i nuovi mercati dalla Russia, al Messico, alla Corea, potrebbero rappresentare per il “made in Italy” un potenziale di crescita di circa 3,8 miliardi di euro, come ci dice il Rapporto di Confindustria di aprile 2010 su “Esportare la Dolce Vita”. Il problema  è allora quello di formare una nuova classe dirigente che sappia interpretare appieno questo stile di vita italiano che piace al resto del mondo, che si interroghi su come renderlo affascinante e attrattivo per milioni di cittadini di paesi lontani.  Una classe dirigente che, nelle imprese, nelle Istituzioni, negli enti culturali e nelle organizzazioni commerciali e del turismo, sappia comprendere che l’italian lifestyle va sostenuto e non imbarbarito, rilanciando non solo i prodotti (che forse altri paesi impareranno prima o poi a realizzare) ma anche i servizi, il decoro delle nostre città storiche, l’unicità dei nostri luoghi artistici, l’irripetibilità della nostra catena alimentare e ristorativa, del nostro gusto per il design e per la moda. Imparando via via  a non copiare “proprio noi” il modo di vivere standardizzato di molti altri paesi, valorizzando invece le nostre straordinarie differenze.
Queste sono le variabili che potranno risultare determinanti non solo nel farci conquistare nuove e maggiori quote di commercio internazionale ma anche e soprattutto nel ricostruire posizioni e ruoli manageriali di successo in una competizione fondata sulla qualità distintiva della cultura, del gusto e della unicità dei  prodotti e dei servizi italiani.

di Aurelio Regina, presidente Unione degli industriali e delle imprese di Roma

 

 

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