Uno, Giorgio Santini, era dirigente della sinistra Cisl quando l’altro, Maurizio Sacconi, era ministro del Lavoro in un governo di centro destra, il Berlusconi Ter. Il secondo step li vede entrambi senatori, su sponde politiche opposte: uno nel Pd, l’altro nel Pdl. Infine, l’ ennesimo giro di giostra della politica italiana – cioè la coalizione di larghe intese che sostiene il Governo Renzi – li ha messi (più o meno) dalla stessa parte, sui banchi dell’ormai quasi defunto Senato: Santini membro della commissione Bilancio per il Pd, Sacconi presidente della Lavoro per Ncd. Nel confronto organizzato da Confartigianato nell’ambito della Summer School 2015, moderati da Antonio Polito, vicedirettore del Corriere, i due senatori hanno discusso a lungo di lavoro e di pensioni trovandosi a volte in netto disaccordo, ma concludendo in perfetta sintonia su un punto cruciale: l’autonomia delle parti sociali.
Sugli sgravi contributivi alle assunzioni contenuti nella legge di stabilità, per esempio, le posizioni divergono completamente. Per Santini gli sgravi sono cosa buona e giusta, e si augura, infatti, che vengano confermati il prossimo anno: “la discussione e’ ancora aperta, perché c’e’ un vincolo economico e l’impegno di spesa e’ forte. Ma una soluzione potrebbe essere quella di una riduzione progressiva”. Esempio: i tre anni di contribuzione di cui gode chi assume nel 2015, nel 2016 potrebbero scendere a due e nel 2017 solo uno. O, altra ipotesi, si potrebbe arrivare a un taglio della contribuzione generalizzato, abbassando strutturalmente il costo del lavoro. Ma in questo caso, come si pagherebbero le pensioni future? Una soluzione del genere, ammette Santini, “avrebbe un impatto forte sulla previdenza, ormai tutta spostata sul contributivo”. E quindi sì, sarebbe un problema. “In ogni caso –aggiunge- una politica che incentivi il lavoro stabile detassandone i costi e’ una politica giusta. Nel frattempo, dobbiamo dare al sistema il tempo di prendere confidenza con le assunzioni stabili’’. Forse sarebbe più corretto dire ‘’riprendere’’ confidenza: in un passato non troppo lontano i contratti a tempo indeterminato erano la norma. E non esisteva la precarietà che conosciamo oggi, alla quale il Jobs act vorrebbe mettere rimedio. Ma tant’e’, oggi le cose stanno così. Per convincere le imprese ad assumere occorre lo zuccherino. E non e’ detto che basti. Una via d’uscita, per Santini, potrebbe essere quella di incentivare la previdenza complementare: in pratica, compensando la riduzione dei contributi pagati dalle aziende ( e corrispondente, quindi, a una pensione inferiore) con un versamento volontario del lavoratore per una pensione aggiuntiva. In pratica, la famosa ‘’seconda gamba’’ della previdenza, che però ha dimostrato di essere una gamba zoppa. Difficile prenda a funzionare oggi, con i salari sempre più scarni.
Sacconi, invece, gli sgravi contributivi li boccia senza appello: ‘’sono metadone puro’’. Vale a dire una droga che intossica il mercato del lavoro, prestandosi, oltretutto, a mille distorsioni. Porta un esempio: ‘’un oste mio amico mi ha raccontato che grazie agli sgravi ha assunto tutti i suoi parenti. Era una azienda famigliare, dove lavoravano padre, madre, figli, cugini ecc. Ora, mi ha detto l’oste trionfante, li ha assunti tutti: tanto, i costi dei contributi sono a carico dello stato”. Insomma, riassume Sacconi, “dal punto di vista economico abbiamo migliorato, al massimo, la loro pensione. Che Boeri, tra l’altro, prima o poi potrebbe chiedere indietro: visto che e’ finanziata con i soldi pubblici”. In ogni caso, sottolinea, ‘’tutti sanno che non si può usare a lungo il metadone’’. E dunque, per Sacconi, e’ no alla proroga degli sgravi. Per abbassare il costo del lavoro, afferma, meglio detassare il salario aziendale, cavallo di battaglia di quando era ministro. O intervenire su certe voci di costo sproporzionate: dall’Inail all’indennità di malattia, a certi ammortizzatori sociali.
L’ex ministro se la prende anche con la riforma Fornero, che avrà pure salvato i conti pubblici, ma a che prezzo: “La Fornero ha fatto del bene e del male: il male lo ha fatto bene, il bene lo ha fatto male”, chiosa. Sacconi critica, soprattutto, ‘’l’assenza di una transizione’’, che “abbiamo pagato tutti nel modo peggiore, prima generando gli esodati, e successivamente generando enormi spese per salvarli, accentuando inoltre la frattura tra persone della stessa generazione”: da un lato i sommersi, bloccati a un passo dalla pensione, e dall’altro i salvati, che possono godere dei vecchi sistemi previdenziali. Lo ‘’scalone’’ di Maroni, al confronto, era un capolavoro di equità. Per questo, Sacconi auspica che “la prossima legge di stabilita, a cui si sta lavorando in questi giorni, contempli una transizione’’, perché “e’ ovvio che una donna nel settore privato non riuscirà mai a lavorare fino a 67 anni’’. E si commuove, quasi, ‘’per questi sessantenni, queste persone adulte, in mezzo a quella che e’ stata annunciata come la seconda grande rivoluzione delle macchine”, che certo non possono essere abbandonate a se stesse: “le dobbiamo in qualche modo accompagnare, pur senza intaccare la tenuta dei conti sul lungo periodo’’. Quindi, sì a maggiore flessibilità in uscita, ricorrendo anche ai versamenti volontari, sia del lavoratore che del datore di lavoro, e utilizzando il Tfr.
Concorda, in parte, Santini. Ammette che ‘’la riforma del 2011 e’ stata fatta in fretta, in modo grossolano’’, e una soluzione si dovrà trovare. Ma quanto alla flessibilità in uscita, che Matteo Renzi ha stoppato precisando che dovrà essere, nel caso, a costo zero, l’esponente Pd ammette che ‘’nessuno e’ in grado oggi di calcolarne i costi’’: se raggiungessero il tetto massimo ipotizzabile ( vale a dire se tutti gli interessati alla flessibilità in uscita, in una forbice compresa tra 62 e 67 anni, ne approfittassero) ‘’sarebbero costi ingestibili’’. Ma d’altra parte, se i vecchi non escono dal mercato del lavoro, come sperare di far entrare i giovani? Santini suggerisce la staffetta generazionale: ‘’alcune imprese la stanno sperimentando con successo’’. Sempre di piccoli numeri però si tratta, e non risolvono il grande problema centrale dei nostri tempi: dare lavoro, pensioni e certezze ai giovani ma anche ai vecchi, senza pero’ creare buchi nei conti pubblici.
Ma e’ sull’ultimo tema di discussione, un po’ a sorpresa, che l’ex ministro e l’ex sindacalista si trovano in perfetta sintonia: e cioè sulla necessità di riformare la contrattazione e la rappresentanza, evitando però interventi legislativi su temi che riguardano solo le parti sociali. Santini si rivolge agli ex colleghi di Cgil, Cisl e Uil, affermando che ‘’dopo averne parlato per anni, oggi ci sono tutte le condizioni per un accordo sulla contrattazione”. Lancia una sua proposta, ‘’semplicissima’’, di riforma: definire nel contratto nazionale il salario minimo, da rivedere ogni tre anni, mentre alla contrattazione di secondo livello spetterebbero gli aumenti legati alla produttività; a livello territoriale per i piccoli e gli artigiani, aziendale per le imprese maggiori. In questo modo, si supererebbe anche lo scoglio del salario minimo stabilito per legge. Al legislatore, secondo Santini, spetterebbe solo il compito di “incentivare il tutto detassando il salario aziendale”, cioè la stessa ricetta suggerita da Sacconi. I due ‘’ex’’ sono assolutamente d’accordo anche nel dire no a interventi legislativi sulla rappresentanza. Sacconi si rivolge direttamente a Renzi per dirgli: “presidente, non farlo’’. Sottolinea che ogni nuova legge apre le porte a nuove complicazioni, spesso giudiziarie, e osserva che ne’ i sindacati ne le imprese vivono di soldi pubblici, ma dei contributi dei loro associati: a che titolo dunque lo stato metterebbe bocca nella loro vita, diciamo, privata? Santini caldamente approva: ‘’su questi temi, meglio si autoregolino le parti”.
Nunzia Penelope