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Home - Approfondimenti - L'Editoriale - Salario minimo, i pericoli e i vantaggi

Salario minimo, i pericoli e i vantaggi

di Massimo Mascini
22 Marzo 2019
in L'Editoriale

E’ diventato l’argomento del giorno. Di salario minimo legale si parla ormai a tutti i tavoli. Anche, a quanto trapela, tra governo e sindacati. Non si sa bene con quale risultato. Perché le poche voci filtrate dopo un incontro al ministero del Lavoro indicano i sindacati come non esattamente contrari a un provvedimento del genere, mentre nelle uscite ufficiali, anche nella recente audizione in Parlamento, i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil sono sempre stati nella sostanza abbastanza contrari.

Il punto è che il tema è molto complesso, tocca diversi aspetti tra loro contraddittori, per cui occorre valutare ogni uscita con grande attenzione. Che ci sia un’area vasta di lavoro sottopagato, è un dato di fatto. Fino a qualche tempo fa i minimi contrattuali erano un punto di riferimento preciso, utilizzato anche dalla magistratura quando si doveva individuare un livello salariale che rispondesse in qualche modo all’imperativo dell’articolo 36 della Costituzione. I problemi sono sorti quando il numero dei contratti è improvvisamente lievitato. Erano sempre molti, anche per la moltiplicazione delle parti datoriali, ma a un certo punto il loro numero è esploso.

Attualmente il Cnel ne conta quasi 900. La gran parte dei quali sono veri e propri contratti pirata, firmati da associazioni datoriali e da sindacati mai sentiti prima, che improvvisamente nascono e si mettono d’accordo per firmare un contratto che, guarda caso, indica minimi salariali molto bassi, oltre a peccare di limitata generosità anche nella parte normativa. Contratti pirata, appunto, che hanno l’unico obiettivo di praticare dumping contrattuale.

Di qui la volontà di alcune parti politiche – dal Pd ai 5stelle- di mettere un freno a questa escalation. Fissando un salario minimo legale, tutti i contratti che indicano minimi salariali più bassi escono di scena, diventano illegali a tutti gli effetti. I sindacati, fin da quando è partito il dibattito, che si è fatto subito molto ricco, hanno assunto un atteggiamento sostanzialmente negativo. Perché ritenevano la materia salariale di loro stretta competenza e non gradivano che fosse il Parlamento a indicare i parametri salariali. Le diverse proposte che sono state avanzate sono sempre state accolte con molto nervosismo. Tanto è vero che anche Matteo Renzi, che aveva ricevuto una delega dal Parlamento per indicare un salario minimo per legge, non ne ha fatto nulla, lasciando questa delega inevasa, l’unica all’interno del Job Act.

Adesso però la cosa è andata avanti e, soprattutto, è arrivato un disegno di legge dai 5Stelle, prima firmataria Nunzia Catalfo, la presidente della Commissione Lavoro del Senato, che il governo sta portando avanti, tanto è vero che proprio direttamente con Catalfo i sindacati stanno trattando. In questo contesto da Cgil, Cisl e Uil non sono venute risposte aprioristicamente negative. Un motivo c’è per questa diversità di accoglienza, ed è il fatto che il provvedimento afferma che a dettare i minimi salariali in grado di rispondere alla richiesta dell’articolo 36 della Carta, devono essere i minimi dettati dai contratti nazionali di lavoro, sempre che indichino un valore superiore ai 9 euro l’ora.

L’indicazione non è di poco conto, perché i sindacati sarebbero garantiti dal fatto che, se i salari restano al di sopra di quell’asticella, resteranno confermati nel loro ruolo di autorità salariale. Tutto bene, dunque? Non proprio, perché ci sarebbero parecchie incongruenze in quella proposta. Per esempio, resta un dato di fatto che la particolare struttura produttiva del nostro paese potrebbe provocare dei problemi. C’è il rischio concreto, infatti, che la miriade di aziende piccole e piccolissime possano essere tentate di non fare più riferimento ai contratti nazionali, ma di applicare tout court il salario minimo di legge. Si sentirebbero legalmente coperte, a tutto danno dei lavoratori.

Oppure potrebbe capitare che qualcuno, per aggirare l’obbligo di pagare i lavoratori più di prima, scivoli nel nero. Abbiamo già record negativi al riguardo, una crescita del sommerso non è per nulla da escludere. Servirebbero più controlli, allora, è chiaro, ma chi dovrebbe farli? Il corpo degli ispettori del lavoro, tra quelli ministeriali, quelli dell’Inps e quelli dell’Inail, non conta più di 4.000 addetti: pochi, drammaticamente pochi.

Un altro pericolo legato all’introduzione di un salario minimo legale è che questo si traduca in una maggiore difficoltà a chiudere le trattative per i rinnovi contrattuali. Già in alcuni settori si fatica, e non poco, ad arrivare a un accordo, con una legge potrebbe essere tutto più difficile. Infine, c’è il rischio, anche questo concreto, che con l’applicazione di un salario minimo fissato per legge si riduca il livello medio del salario, che il lavoro perda ancora di più valore. Anche perché non bisogna dimenticare che una cosa è il salario in busta paga, un altro il trattamento generale dei lavoratori, perché il contratto prevede molti altri fattori, le ferie, il Tfr, l’orario di lavoro, il welfare contrattuale: il solo valore del salario, insomma, non è sufficiente a indicare quanto davvero percepisce un lavoratore. Non a caso il Patto della fabbrica, firmato da Confindustria e sindacati un anno fa distingueva tra il Tem, trattamento economico minimo, dal Tec, trattamento economico complessivo.

Ma c’è anche un altro problema legato a questo ipotetico provvedimento, perché il disegno di legge della Catalfo afferma che i contratti da prendere come metro di riferimento devono essere quelli sottoscritti dai sindacati e dalle associazioni datoriali più rappresentative. Ma quali sono queste associazioni? Cgil, Cisl, Uil e le federazioni di Confindustria? Sicuramente sì, ma le altre associazioni e gli altri sindacati non sono d’accordo e potrebbero impugnare il provvedimento. Varrebbe l’indicazione se si fosse dato valore legale all’accordo tra le parti sociali su rappresentanza e contrattazione del gennaio del 2014, ma così non è stato per tanti e diversi motivi. Una legge non è venuta e difficilmente arriverà, in più il ministero del Lavoro, nell’ultimo anno, ha tenacemente bloccato l’applicazione di quell’accordo.

Massimo Mascini

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Direttore responsabile de Il diario del lavoro

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