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Home - Approfondimenti - Interviste - Serve anche la contrattazione territoriale per redistribuire la produttività

Serve anche la contrattazione territoriale per redistribuire la produttività

6 Ottobre 2004
in Interviste

La Cisl continua a sottolineare l’importanza della riforma del modello contrattuale, per estendere a tutti i lavoratori il secondo livello, aziendale e territoriale. Caprioli, perché è così fondamentale?
Oggi il secondo livello interessa solo una piccola parte dei lavoratori. Per quelli che hanno solo il contratto nazionale, c’è stata una faticosa rincorsa dell’inflazione, senza poter accedere agli aumenti legati alla produttività. La proposta della Cisl vuole, quindi, individuare meccanismi in grado di includere anche questi lavoratori, concentrati soprattutto nelle piccole fabbriche, nella redistribuzione delle risorse. Il meccanismo che abbiamo individuato prevede la contrattazione territoriale solo per i lavoratori che non fanno quella aziendale. Si tratta quindi di completare l’estensione del secondo livello e non, come ritiene anche Confindustria, di aggiungere un terzo livello.
L’obiezione che vi viene rivolta è che il luogo in cui si produce ricchezza è l’azienda, non il territorio.
Questa è l’obiezione di Confindustria ma bara, perché sa bene che le nostre capacità organizzative non ci permettono di fare la contrattazione aziendale ovunque. Dietro un discorso teoricamente ineccepibile, nasconde la volontà di lasciare le cose come stanno. Tra l’altro, non è vero che il territorio non ha legami con la produttività. Tutti gli studiosi di sistemi economici e industriali sostengono che le reti di relazione tra le industrie, ma anche tra l’industria e il territorio, ovvero tra amministrazioni locali e tipo di forza lavoro presente, sono un fattore di competitività. Quindi, le condizioni locali possono aiutare o danneggiare le imprese. Certamente senza la precisione che si può avere a livello aziendale, è possibile costruire dei modelli di misurazione della produttività a livello territoriale.

Se non riuscirete ad ottenere il livello territoriale, è possibile prevedere una quota di produttività nazionale per chi non ha il secondo livello?
E’ certo un’ipotesi di mediazione tra le diverse opinioni e, secondo me, di avvicinamento alla contrattazione territoriale. Il problema chiave è come redistribuire la produttività. Secondo noi la soluzione migliore è la contrattazione territoriale. Comunque, se la controparte continua a essere indisponibile anche a nominare la contrattazione territoriale, non potendo rimanere in attesa di tempi migliori, dobbiamo trovare altre strade, anche se ci convincono di meno. Una richiesta di aumento nazionale articolato che preveda una parte legata al recupero dell’inflazione e un’altra per i lavoratori che nel quadriennio normativo non realizzino accordi aziendali, potrebbe essere una soluzione.


Diventerebbe un obbligo anche per le aziende che vanno male?
E’ una soluzione che presenta, infatti, qualche difficoltà in più. Ma se le imprese non vogliono fare la contrattazione territoriale, che è maggiormente in grado di tener conto dei diversi fattori della competitività, dobbiamo comunque trovare una soluzione per quei lavoratori non raggiunti dagli accordi aziendali.


Spesso si sente parlare di un contratto nazionale troppo oneroso. In Germania, ad esempio, si fanno accordi di secondo livello a ribasso rispetto al primo livello.
Una contrattazione troppo centralizzata può costringere a concedere deroghe. Il modello tedesco è il più centralizzato del mondo e, oramai, sta pagando le conseguenze dell’apertura delle economie dei singoli Paesi alla competizione internazionale. L’industria tedesca non regge più un livello unico e molto alto di contrattazione. Poiché questo problema non è stato affrontato, il sindacato metalmeccanico della Germania da qualche anno a questa parte è costretto a concedere deroghe al contratto nazionale. Si è cominciato abbassando del 20% il salario delle imprese dell’Est. Ora il problema arriva anche nella Germania Ovest perché alcune grandi imprese sono riuscite ad ottenere un aumento dell’orario di lavoro. Ma non è certo questo il modo per affrontare il problema della competitività.


Ma l’aumento dell’orario di lavoro è un tema che stanno affrontando molti Paesi e da noi se ne comincia a parlare.
I contratti da sempre affrontano questo tema, ma con un’impostazione dell’orario fortemente centralizzata. Oggi si è creato un problema di flessibilità. Più che dell’aumento dell’orario annuo, occorre ragionare sulla necessità di introdurre un orario adeguato sia alle diverse contingenze di mercato in cui l’azienda versa, sia delle diverse esigenze dei lavoratori. Come Fim abbiamo fatto una ricerca che esaminava situazioni aziendali in cui, con la contrattazione di secondo livello, si sono costruite soluzioni ribattezzate “a menù” che conciliano le esigenze mese per mese di ogni singolo lavoratore alle diverse esigenze di produzione dell’azienda. Il problema quindi è la flessibilità degli orari e il fatto che non sia a senso unico. Ovvero che sia dettata dalle esigenze dell’azienda ma anche condizionata da quelle personali del lavoratore. Del resto, esistono già strumenti che regolano queste cose come la banca ore. E anche strumenti che già prevedono settimane in cui si lavorano 48 ore, alternate a settimane con orari di lavoro di 32 ore, senza pagamenti di straordinari nelle settimane in cui si lavora di più.


L’orario è, quindi, uno degli argomenti che potrebbero essere affrontati nel secondo livello?
Certo, poiché il contratto nazionale deve fissare le regole generali e i limiti sotto i quali non si può scendere. Poi, le soluzioni ad hoc possono essere costruite solo azienda per azienda. Ancor più per quanto riguarda i metalmeccanici, visto che il nostro contratto è talmente ampio che si possono verificare situazioni molto diverse e quindi impossibili da regolare con il contratto nazionale.


Veniamo ai metalmeccanici. Dopo l’ultimo incontro, come procede la discussione tra voi?
La situazione tra noi è pessima. Siamo arrivati a un punto morto, sia sulle modalità per valutare un accordo, sia sulle richieste da presentare. Per quanto riguarda le regole democratiche, la nostra proposta di eleggere un’assemblea di delegati, dopo essere stata in qualche modo accettata dalla Fiom, è stata rifiutata, almeno nel breve periodo, dalla Uilm. Del resto noi non siamo disponibili ad accettare, nemmeno transitoriamente, soluzioni che mettano in campo il solo strumento referendario. Sarebbe un’anomalia nel panorama sindacale italiano e internazionale. Sulle richieste salariali, l’idea dell’aumento articolato in due parti sembrava un buon punto di mediazione tra le diverse impostazioni, almeno nella prima fase della discussione. Però, quando abbiamo tradotto la proposta in cifre, ci siamo trovati di fronte un quadro molto complesso, con impostazioni difficilmente conciliabili.


L’ultimo incontro tra le segreterie non ha registrato avvicinamenti?
La Fiom non era contraria alla proposta della Fim di eleggere un’assemblea di delegati per pronunciarsi su piattaforme e soluzioni delle vertenze. Preferisce comunque lo strumento referendario, che è stato il suo cavallo di battaglia per tre anni. Quindi, quando la Uilm ha proposto di utilizzare, almeno per questa volta, il referendum, la Fiom si è detta favorevole. Una possibilità per la Fim assolutamente inaccettabile.


Se non arriverete a una proposta unitaria, quali sono i rischi?
Se noi presenteremo tre piattaforme è molto probabile che Federmeccanica, visto anche il cattivo andamento del settore, usi la situazione per far durare la trattativa all’infinito, con esiti altamente preoccupanti anche sulla stessa gestione del contratto nazionale. Il nostro contratto è sempre caricato di significati che vanno oltre la categoria. Se il pubblico impiego aspetta due anni per fare il nuovo contratto è certo un problema, ma non ha ripercussioni più generali. Se il ritardo riguarda i metalmeccanici, può essere a rischio il contratto nazionale.


Cosa potrebbe succedere se la trattativa ristagna?
Dopo un po’, le aziende potrebbero concedere unilateralmente, una per una, aumenti generalizzati. Azioni singole che, messe tutte insieme, rappresenterebbero un fatto politico. E potrebbe essere questa la via con cui, di fatto, il contratto nazionale viene superato.


Un accordo tra voi potrebbe aprire il dialogo sul modello contrattuale tra le confederazioni che, almeno per ora, sembra arenato?
Ritengo di sì, darebbe un contributo politico sia sul clima che sulla voglia di confrontarsi. Non necessariamente le nostre soluzioni dovrebbero valere per tutti, ma sicuramente potevano portare un contributo alla discussione.


Perché nell’ultimo incontro, ha proposto di far intervenire le confederazioni nel dibattito tra i metalmeccanici?
E’ stata una strada intrapresa già in altre occasioni, quando ci siamo trovati di fronte a serie difficoltà. In occasione del primo contratto separato nel 2001, per esempio, lo propose la Fiom e fummo tutti d’accordo. Stavolta, visti anche i legami tra le nostre vicende e quelle più generali, mi è sembrato opportuno fare una verifica con le confederazioni prima di una eventuale e clamorosa rottura. Cgil, Cisl e Uil sono comunque chiamate in causa nella vicenda poiché se riuscissimo a trovare l’accordo daremmo un contributo positivo alla discussione. In caso contrario è il clima generale a risentirne. Per questo ho avanzato la proposta di un incontro, ma sia la Uilm che la Fiom si sono dette contrarie.

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