Se la strada per uscire dalla crisi è riguadagnare competitività, il cammino appare tutto in salita nel medio termine e assai doloroso nel breve, sulla pelle della gente. In Italia e negli altri paesi deboli della periferia europea. E’ la conclusione a cui giunge un lungo documento, che il Fondo monetario internazionale ha diffuso in questi giorni. Al nocciolo, la ricetta è il taglio dei salari, anche se il rimedio, riconosce lo stesso Fmi, è in diretta contraddizione con la necessità di ridare fiato all’economia con il rilancio della domanda. D’altra parte, il documento non pretende di fornire un decalogo di interventi pronti all’uso. Fa parte, piuttosto, della riflessione autocritica che il Fondo – e, in particolare, il suo capoeconomista Olivier Blanchard – hanno aperto dopo cinque anni di crisi globale e che ha già prodotto lo studio in cui lo stesso Fmi si autoaccusa di aver sottovalutato le conseguenze delle politiche di austerità. Il ventaglio di interventi esaminato dagli economisti di Washington – dagli opt out contrattuali alla Marchionne alle grandi intese nazionali, tipo accordo Ciampi – sarà, probabilmente, tuttavia, al centro del dibattito politico dei prossimi mesi e, in particolare, dei rapporti e delle trattative fra il futuro governo italiano e le istituzioni europee.
Riguadagnare competitività, dice il documento, è possibile in due modi. O aumentando la produttività, o tagliando i salari relativi, cioè in rapporto a quelli dei paesi concorrenti. Solo che aumentare la produttività richiede tempo e, nell’immediato, può anche aumentare la disoccupazione. Quanto ai salari, dove, come nell’area euro, non è possibile una svalutazione della moneta, si possono solo ridurre le buste paga. Naturalmente, in linea di principio, in termini relativi. Cioè, basta che aumentino meno che altrove. Per chiudere il gap di competitività fra Nord e Sud Europa, dice il Fmi, occorre che il Nord accetti un’inflazione più alta del Sud. “Per definizione – dice il Fondo – se l’obiettivo di inflazione dell’area euro è il 2 per cento e nel Sud è più bassa, nel Nord deve essere più alta”. Insomma, “se il Nord vuole che il Sud si aggiusti deve accettare più inflazione in casa propria”. “Un punto – aggiunge acido il documento – che abbiamo sottolineato più volte, ma non è stato sempre pienamente capito”. In particolare, naturalmente, dalla Germania, che continua ad applicare una politica di austerità a casa propria.
Se i tedeschi non collaborano, c’è la strada degli accordi nazionali tripartiti, modello accordo Ciampi. Altrimenti, bisogna introdurre flessibilità nella politica salariale. Come? Con gli opt out dal contratto nazionale alla Marchionne e il decentramento della contrattazione a livello d’impresa, in modo da parametrare il salario alla produttività. Anche se, nota il Fmi, il grado di fiducia reciproca testimoniato dagli accordi nazionali, vale, probabilmente, più delle metodologie di contrattazione collettiva. Parallelamente (o in alternativa) si può intervenire sulle tasse. E’ la strada che è stata chiamata “svalutazione fiscale”. Si sgrava il costo del lavoro (ad esempio di una quota di contributi sociali), così che i prezzi delle merci esportate si riducono. Il buco fiscale si colma con un aumento dell’Iva che, non pesando sulle esportazioni, non riduce il vantaggio fiscale appena ottenuto. Finora, nota il Fmi, nessuno ha ancora intrapreso la”svalutazione fiscale”, da cui, in ogni caso, non ci si può aspettare un guadagno di competitività di più di un paio di punti (l’Italia, sulla Germania, ne deve recuperare una ventina: dal 2000 prezzi e salari italiani sono aumentati del 20 per cento in più, rispetto ai tedeschi), perchè un aumento superiore dell’Iva non sarebbe sostenibile.
Maurizio Ricci