C’è una vena di ottimismo nel quadro dell’economia italiana che il governo disegna nel suo Documento di economia e finanza fresco – per usare una metafora obsoleta – di stampa. L’idea è che l’Italia riuscirà ad evitare la recessione e a mantenere un, sia pur modesto, ritmo di sviluppo, nonostante i venti contrari. E allargare il Pil significa contenere i parametri su deficit e debito. Perché sarebbe ottimismo? Perché questo richiede più di una svolta favorevole. La più importante è la fine della stretta monetaria della Bce, che sta inaridendo il credito alle imprese. Quella del governo italiano è, però, una scommessa al buio. Neanche a Francoforte sanno, infatti, cosa faranno nei prossimi mesi.
La Bce cammina, in effetti, su ghiaccio sottile. Lo conferma l’emergere all’aperto di tensioni che, nel galateo ovattato delle banche centrali, restano solitamente nel chiuso dei dibattiti del board. Nagel, il boss della Bundesbank chiede pubblicamente la prosecuzione serrata degli aumenti dei tassi, mentre l’italiano Visco e il suo collega portoghese, Centeno, reclamano, invece, una pausa immediata. Ad alzare il volume del dibattito è una novità delle ultime settimane. A Francoforte, infatti, rimpiangono probabilmente, i tempi in cui avevano a che fare solo con un dilemma: frenare l’inflazione a costo di una recessione o evitare una recessione, ma alimentando l’inflazione. Ora, è un trilemma: l’aumento dei tassi non solo rallenta l’economia, ma può scatenare una vasta crisi finanziaria. E’ dubbio che le banche centrali lo avessero messo in conto, anche se non era un rischio imprevedibile.
Cosa succede? Sulla scia della Fed americana, la Bce ha alzato i tassi da meno 0,5 al 3 per cento, nel giro di nove mesi, una velocità senza precedenti. Il risultato è che le obbligazioni e i titoli pubblici, comprati in epoca di tassi bassi, di cui sono pieni i forzieri delle banche hanno perso valore, mettendo in dubbio la solidità delle banche stesse.
I timori, scatenati dai flop di un paio di istituti americani, sono stati rapidamente contenuti. La Bce assicura che i patrimoni delle banche europee sono solidi e ben monitorati e, del resto, le stesse banche non hanno necessità di vendere quei titoli prima che il loro valore venga integralmente restituito alla scadenza.
Tutto vero, ma racconta solo metà della storia. Esattamente metà: il 50 per cento degli attivi delle finanza mondiale (titoli, prestiti ecc.) non sta nelle banche, ma nell’altra finanza: fondi di investimento, assicurazioni, finanziarie. E, qui, le regole sono molto più lasche. Quelle obbligazioni e quei titoli non stanno a dormire fino a scadenza, ma sono moneta corrente. Usata come garanzia di investimenti, collaterali nei prestiti, scambiata in fantasiose operazioni con i derivati. Questi derivati, in particolare, sono la droga della finanza non bancaria. Nell’Outlook che verrà reso noto nei prossimi giorni, il Fondo monetario internazionale lancia l’allarme: la leva della finanza-ombra (ovvero il rapporto tra derivati e attivi netti) è in media del 15 per cento. Ma, per alcuni tipi di fondi, arriva al 40 per cento.
Nel suo insieme, la finanza non bancaria, avverte il Fmi, usa troppi derivati, tende a finanziare i suoi investimenti soprattutto con i debiti ed è, normalmente, a corto di liquidità. Ovvero, corre sul filo. E un capitombolo tracimerebbe inevitabilmente sulle banche, apparentemente così solide. Gli intrecci fra finanza bancaria e non bancaria sono, infatti, strettissimi e monumentali avverte il Fmi. Fra debiti e crediti, le banche hanno affari in piedi con la finanza ombra per 14 mila miliardi di dollari.
Impedire che, in caso di terremoti, la montagna crolli comporterebbe, per le banche centrali, iniezioni di liquidità nel sistema che farebbero saltare l’austerità antinflazione, riportando la Bce al punto di partenza. Ecco perché, a Francoforte, sale il nervosismo di chi si preoccupa che il ghiaccio si rompa e invita a non compromettere gli equilibri attuali. Anche perché i dubbi sulla stabilità finanziaria riportano in primo piano anche i dubbi su entità e durata della stretta monetaria.
L’inflazione, infatti, è già in rapida discesa, insieme ai prezzi dell’energia. Non lo è l’inflazione di fondo (al netto, cioè di energia e alimentari, i comparti più volatili). Ma non tutti gli economisti sono convinti che l’inflazione di fondo sia la bussola giusta per prevedere l’inflazione futura. Anche perché il temuto volano che radichi l’inflazione nelle aspettative, cioè la spirale prezzi-salari, continua a non manifestarsi. Secondo i dati della stessa Bce, i salari europei si stanno muovendo ad un ritmo del 3,5-4 cento (in Italia all’1 per cento) e le retribuzioni riusciranno a recuperare quanto mangiato dall’inflazione soltanto nel 2025. Di fatto,la crescita del costo unitario del lavoro diminuirà dal 5 per cento attuale al 2 per cento, nel giro dei prossimi due anni.
Il problema, semmai, sono i profitti cresciuti – sempre secondo i dati Bce – del 9 per cento nel corso del 2022, contro un aumento del costo del lavoro per unità di prodotto del 2,5 per cento. Ma questo vuol dire che le aziende hanno i margini per assorbire il recupero salariale previsto, senza agire sui prezzi. E il rientro dei profitti nei margini abituali è, normalmente, più rapido e spontaneo di quanto avvenga con i salari. L’inflazione, insomma, oggi fa meno paura.
Maurizio Ricci