Il cumulo dei debiti inesigibili – una quota che è circa il doppio di quanto avviene nel resto d’Europa, fra un sesto e un quinto del totale – è la zavorra che impedisce alle banche di far fluire il credito alle imprese. Un po’ tutti dicono che questo è uno dei nodi che non consente all’economia italiana di ripartire allo stesso ritmo delle altre economie europee. Ma per ogni debito inesigibile, c’è un debitore, quasi sempre una impresa che, proprio perchè non restituisce i debiti, riesce, a fatica, a restare in piedi. L’Ocse le definisce le aziende zombie, quelle che hanno problemi permanenti nel pagare gli interessi sui prestiti che hanno ottenuto e sostiene che il loro peso non solo soffoca i bilanci delle banche, ma aggrava il sistema delle imprese in quanto tale, riducendo il potenziale di produzione e i ritmi della produttività.
Il rischio, secondo gli economisti dell’organizzazione che raggruppa i paesi industrializzati, è la stagnazione del Giappone anni ’90: “le aziende zombie deprimono la creazione distruttiva, strozzano le opportunità di crescita delle aziende sane e pongono le premesse di un periodo di stagnazione macroeconomica”. Il problema è che queste imprese decotte, negli ultimi dieci anni, sono aumentate. Non solo come numero, ma anche come occupazione congelata al suo interno e, soprattutto, capitale produttivo paralizzato. Nel mondo competitivo che immagina l’Ocse, un’impresa decotta chiude e fa spazio – in termini di capitale, credito, occupazione, mercato – ad un’azienda vitale. Restando in vita, intasano il mercato e riducono la capacità di far profitti delle imprese sane: rispetto alla produttività media i salari restano alti, perché l’occupazione è stabile, mentre i prezzi sono bassi perchè l’offerta è alta.
Dieci anni fa, in Italia, le aziende zombie erano meno di una su cinquanta, mentre nel 2013 a non riuscire a pagare gli interessi sui debiti erano più di una su venti. In Spagna, e anche in Belgio, la situazione, in termini di numero di aziende è anche peggiore, ma la quota di attività economica paralizzata all’interno delle imprese decotte è assai più significativa in Italia: il 10 per cento degli occupati lavora per ditte che, in realtà, dovrebbero chiudere. E, soprattutto, la quota di capitale – impianti, macchinari ecc. – congelata in queste aziende è passata dal 7 per cento del 2007 al 19 per cento del 2013.
Così si protegge l’occupazione, ma a breve respiro. Secondo l’Ocse, questa animazione sospesa impedisce, infatti, una riallocazione del capitale su impieghi più produttivi. Secondo i calcoli dei suoi economisti, la produttività del sistema Italia, la palla al piede della nostra economia, praticamente immobile da venti anni, sarebbe più alta dello 0,7 per cento, se il capitale venisse impiegato nelle aziende sane. E le simulazioni mostrano che le aziende non zombie avrebbero investito il 6 per cento in più, nel 2013, se non fossero state intralciate dalle aziende decotte, supportando la tesi che l’occupazione avrebbe recuperato per questa via quanto perso con la chiusura delle imprese malate. Secondo l’Ocse, questa riluttanza delle aziende sane ad impegnare nuovo capitale sarebbe responsabile di almeno un quarto del declino degli investimenti privati (non residenziali) che si è verificato fra il 2008 e il 2013.
La paralisi dell’economia italiana, in altre parole, non è solo problema di articolo 18 e , tutto sommato, neanche di Jobs act. I “walking dead”, le aziende morte che camminano, sono piuttosto il frutto una cultura bancaria e politica che salvaguarda il vecchio, senza osare il nuovo. Ma anche di concreti strumenti operativi, ormai sorpassati. L’Ocse ne cita due: la liberalizzazione dei mercati e la riforma del regime fallimentare.
Maurizio Ricci