Ebbene sì, lo smart working nella pubblica amministrazione ha i giorni contati. Dal prossimo 15 ottobre, su indicazione del ministro Brunetta e dopo un Dpcm firmato dal premier Draghi, il lavoro in presenza ritornerà a essere la modalità prevalente. Spetterà poi alla Funzione pubblica determinare le modalità di rientro, in attesa di un contratto che disciplini il lavoro da remoto. Brunetta ha motivato questa decisione spiegando che con il ritorno negli uffici gli addetti del pubblico impiego potranno accompagnare la ripresa del paese e la vita dei cittadini. Sinceramente non capisco in che modo e quanto il lavoro in presenza possa sostenere la fase post covid di più rispetto allo smart working. Al livello pratico vuol dire che dobbiamo rimetterci nuovamente in fila per ottenere certificazioni, documenti e tutto il resto?
Mi si potrà obiettare che non sempre i sistemi informatici della PA sono stati all’altezza del compito richiesto e delle esigenze degli utenti, e che la digitalizzazione può rappresentare un ostacolo per le persone più grandi, meno avvezze alla tecnologia. Tutto vero, ma l’interruzione dell’esperienza del lavoro agile non aiuterà di certo a sanare i gap digitali del pubblico impiego, arrestando di fatto un processo che, sebbene lungo e tortuoso, avrebbe potuto portare veramente a una rivoluzione. Per chi si trova più a suo agio con un operatore in carne e ossa che con uno schermo di un pc, la soluzione può essere una presenza ridotta negli uffici. Certamente l’intento non è quello di lasciare indietro nessuno. Credo che, a volte, prevalga anche un po’ di pigrizia (e lo dice uno particolarmente pigro). Ci muoviamo, con una certa disinvoltura, tra social diversi, condividiamo foto e video, inseriamo la mail per usare il play store, facciamo acquisti su Amazon, ma davanti ai portali della pubblica amministrazione ci paralizziamo. Sicuramente la burocrazia ai più risulta indigesta, e i sistemi informatici, in certe occasioni, ci fanno precipitare in aporie insolubili, in un labirinto senza via d’uscita, per cui se io ho smarrito un ipotetico elemento A, posso richiederlo attraverso l’elemento B, ma per accedere all’elemento B ho bisogno dell’elemento A. Ma tutto questo dovrebbe spronare a rendere più user friendly le piattaforme del pubblico impiego.
Mi si potrà ulteriormente obiettare che la mancaza del confronto impedisce la nascita di nuove idee. Anche su questo punto non posso che non essere d’accordo, ma mi chiedo quanti siano i veri momenti di brainstorming, nel pubblico quanto nel privato, rispetto alle operazioni ripetitive. La verità è che una misurazione e un’analisi dei benefici dello smart working non è mai stata fatta con cura, con il rischio di derubricare questa esperienza a mero momento emergenziale. Con la pandemia abbiamo abbandonato i mezzi pubblici, per timore di contrarre il virus, rifugiandoci nelle nostre auto che hanno incrementato notevolmente traffico e smog. È fuor di dubbio che molte attività, legate soprattutto alla ristorazione, alle mense e alle pulizie hanno sofferto il lavoro da casa. Dobbiamo dunque chiederci se effettivamente vogliamo continuare a pensare l’economia e la socialità di interi quartieri delle nostre città unicamente legate in concomitanza di uffici e banche.
C’è poi tutto il tema legato al miglioramento delle condizioni lavorative e personali del lavoratore. È vero anche che con il lavoro agile sono state sempre le donne a farsi carico degli oneri di cura all’interno delle mura domestiche, ma è altrettanto vero che il numero più alto di dimissioni dovute all’impossibilità di conciliare famiglia e lavoro si ha tra le donne. Dunque se con il ritorno in presenza gli uomini potranno sempre continuare a lavorare e le donne dovranno rinunciare alla carriera, quale potrà mai essere il beneficio. Il lavoro agile potrebbe, d’altro canto, innescare un percorso virtuoso grazie al quale lavoratori e lavoratrici vengono posti nelle stesse condizioni per la cura di figli o anziani. Il lavoro da remoto implica, in aggiunta, anche un aumento del potere di acquisto delle persone, che risparmiano in mezzi e trasporto. Questo non vuol dire lo smart working sia la panacea di tutti i mali per la questione salariale o che non ci debbano essere più aumenti retributivi o che le imprese si rifiutino di riconoscere i buoni pasto, che con il lavoro da casa possono andare a coprire altre spese vive per il lavoratore, come il riscaldamento, visto che le stesse aziende si trovano nella condizione di contenere i costi legati all’affitto e al mantenimento degli immobili. Infine l’assunzione di responsabilità che lo smart working richiede al singolo dipendente potrebbe essere un modo per far emergere comportamenti poco corretti dal punto di vista dell’etica professionale e smascherare i famigerati furbetti.
Insomma signor ministro c’era tutta questa fretta nel far ritornare i dipendenti pubblici nei loro uffici?
Tommaso Nutarelli