Negli ultimi mesi del 2021, vari contributi su queste colonne hanno tentato di riportare al centro del dibattito il tema delle strategie di rinnovamento della membership sindacale. Spunto per questa riflessione è stata la conferenza finale di un progetto di ricerca europeo che si è svolta al Centro Studi CISL di Fiesole (Firenze) e che ha coinvolto i membri del partenariato (si veda il sito del progetto BreakBack) e alcuni dei protagonisti del dibattito nazionale e internazionale (qui, disponibili gli interventi di tutti i relatori).
In sintesi, la ricerca condotta in cinque paesi europei ci ha mostrato che i servizi sindacali sono sempre più utilizzati in chiave strategica per intercettare quei lavoratori che il sindacato ha, per molte ragioni, difficoltà a incontrare. È il caso della belga United Freelancers che, grazie ai servizi offerti ai lavoratori autonomi altamente qualificati e ai lavoratori della platform economy, è riuscita a intercettarne mille nel solo 2020. Oppure degli spagnoli di TuRespuestaSindacalYa e del Whatsapp de la Precariedad, che provano a dare una pronta risposta alle esigenze di lavoratori diversificati e dispersi. Ma anche dei danesi Freelance Bureau e Flexwerker, che si interfacciano, rispettivamente, con lavoratori autonomi e precari della ricerca. Molte sono poi le iniziative raccolte in Italia, tra le quali si richiamano quelle rivolte ai disoccupati (Sportello Lavoro della CISL Firenze-Prato) e agli autonomi (Vivace-Felsa-CISL, Partita Viva Vicenza e Nidil-CGIL Firenze).
Che cosa accomuna esperienze così diverse? Si tratta certamente della consapevolezza da parte dei sindacati che i cambiamenti nel mercato del lavoro riducono l’efficacia dei canali di reclutamento tradizionali e che, al contempo, i lavoratori non standard hanno anch’essi l’esigenza di un supporto sindacale, tanta quanta i lavoratori standard. Ma soprattutto che esistono nuove modalità di proselitismo e che il servicing appare una delle più promettenti.
Come è stato già scritto su queste stesse pagine, non si tratta certo di una novità. Da molti anni, in Italia e all’estero, si è postulato che l’offerta di beni individuali potesse rappresentare un incentivo (selettivo) all’iscrizione al sindacato. Tuttavia, le forme di servicing che abbiamo rintracciato con la ricerca sono diverse. In questi casi, tutti più o meno innovativi, i servizi divengono parte integrante dell’azione sindacale; allo stesso tempo, i sindacati che erogano i servizi non adottano la logica aziendale – come quella prevalente, per esempio, nei CAAF – ma fanno propria la logica associativa, quella dell’appartenenza e della rappresentanza.
In altre parole, quando United Freelancers, su richiesta dei lavoratori che cerca di rappresentare, si interfaccia con i loro committenti, non lo fa unicamente con lo spirito di offrire un servizio individuale, come farebbe un’attività di riscossione crediti, ma con l’obiettivo di legittimare l’azione sindacale agli occhi di chi non aveva fino a quel momento trovato motivo di sentirsi rappresentato e, più propriamente, di costruire un rapporto di fiducia basato sulla presa in carico, sulla rappresentanza, oltre che sull’efficacia nella risposta a un bisogno. Lo stesso vale per i disoccupati che si presentano allo Sportello Lavoro di Firenze. Di fronte a un operatore sindacale (che adotta una logica associativa), essi si sentono più compresi e tutelati rispetto a chi utilizza una logica burocratica (gli impiegati dei centri per l’impiego) o di mercato (gli operatori delle agenzie per il lavoro).
Costruire una nuova legittimazione nella società, costruire rapporti di fiducia con i lavoratori, questi sono gli obiettivi finali di quelle sperimentazioni che abbiamo chiamato servicing strategico. Non si tratta dunque di offrire soltanto servizi individuali, ma di costruire nuove comunità tra lavoratori strutturalmente dispersi partendo dai servizi, che dunque ambiscono a divenire “collettivizzanti”.
Ai fini di una nuova riflessione sul rinnovamento della membership sindacale, ci pare opportuno rimarcare due tra gli elementi costitutivi delle forme di servicing strategico descritte nella nostra ricerca.
In primo luogo, la capacità di leadership di alcuni sindacalisti, i quali riescono a concretizzare il proprio pensiero divergente sperimentando nuovi modi di fare sindacato. Questo tipo di iniziative sono generalmente fragili e, per tale ragione, dovrebbero essere tutelate dalla pervasività dei meccanismi di omologazione che caratterizzano organizzazioni complesse come i sindacati. Ma oltre a essere difese dovrebbero essere convintamente promosse, qualora una sempre più urgente discussione interna al sindacato sul rinnovamento dell’azione sindacale le segnalasse effettivamente come strategiche, seguendo un approccio di sperimentalismo democratico.
Il secondo elemento degno di nota è che questi stessi servizi non sarebbero stati realizzabili se i sindacalisti coinvolti non avessero potuto sfruttare le risorse organizzative già presenti nelle proprie organizzazioni, generalmente sottoutilizzate ai fini della sindacalizzazione. Qui parliamo proprio delle strutture che offrono servizi individuali, ampiamente cresciute nel corso degli ultimi trent’anni (per esempio, i servizi di adempimento, quelli vertenziali, il sostegno agli inquilini, le strutture che svolgono attività di orientamento nel mercato del lavoro). Il servicing strategico è pertanto debitore delle professionalità stratificate nelle organizzazioni sindacali, le quali hanno perimetrato l’accesso alle nuove comunità che ci si impegnava a costruire.
Nuovi e vecchi servizi sono dunque legati a doppio filo. È in tal senso che, come già sostenuto da Mimmo Carrieri (in proposito, si veda l’analisi pubblicata il 22 novembre scorso), è auspicabile il superamento della contrapposizione tra una visione eroica dell’attività sindacale – quella dei funzionari/operatori – e la concezione tanto strumentale quanto stigmatizzata dei servizi tradizionali. In altre parole, perché lasciare che le due gambe del sindacato si muovano in maniera scoordinata?
La risposta a questa domanda (retorica) apre a due sfide. La prima dovrebbe essere colta dai funzionari e operatori sindacali, che dovrebbero prendere spunto dagli esempi dei sindacalisti italiani ed europei cui abbiamo dato voce nella ricerca, rafforzando le sinergie tra i repertori consolidati dell’azione sindacale e le opportunità che provengono dal mondo dei servizi tradizionali, in una logica però di offerta di servizi collettivizzanti. La seconda, di più ampia portata, è invece posta ai responsabili dei servizi tradizionali, siano essi CAAF o patronati. Perché non provare a far cambiare pelle alle proprie organizzazioni? Perché perpetuare la sola offerta di servizi individuali, quando ogni sportello potrebbe essere il terminale dell’azione sindacale attraverso servizi collettivizzanti, porta di accesso per una rinnovata comunità del lavoro?
Andrea Bellini (Sapienza Università di Roma) e Alberto Gherardini (Università di Torino)