E’ mancato Gino Giugni, uno dei tre direttori del nostro giornale. Un dolore profondo ci ha colto alla notizia, per quanto fossimo tutti avvertiti delle difficili condizioni della sua salute. Il diario del lavoro gli deve molto, perché la lunga avventura che ha portato alla nascita del nostro giornale nasce da una sua intuizione nei primi anni 80. Quando si accorse che la complessità dello svolgersi delle relazioni industriali del nostro paese richiedeva uno strumento informativo più specialistico, ma allo stesso tempo in grado di raggiungere una cerchia più ampia dei giuslavoristi che leggevano con assiduità le riviste specialistiche. Nacque Lavoro informazione, un quindicinale edito da Franco Angeli, e un anno dopo Gino mi chiamò a dirigerlo. Fu un’esperienza bellissima, sul piano umano prima che professionale. Conoscevo bene Gino, lo avevo incontrato tantissime volte negli anni precedenti nei corridoi del ministero del lavoro, quando era consigliere del ministro di turno o capo dell’ufficio legislativo. Ma lavorare assieme a lui me lo fece conoscere in una prospettiva tutta diversa. Non era più solo il grande giuslavorista, conosciuto e apprezzato in tutto il mondo, non era più solo il mitico padre dello Statuto dei lavoratori, l’autore dei libri di diritto del lavoro su cui si erano forgiate schiere di sindacalisti e di capi del personale. Conobbi l’uomo, la sua simpatia, il suo buonumore, la sua allegria, la sua capacità di affrontare le difficoltà, piccole e grandi, sempre con lo stesso sorriso, che gli illuminava il volto e affascinava chi gli era di fronte in quel momento. Ci ha insegnato molto, a me e a tutti quelli che hanno avuto la fortuna di collaborare con lui, prima a Lavoro informazione, poi al Diario del lavoro. Ci ha dato soprattutto il consiglio più importante, quello di non schierarsi mai da una sola parte, di restare sempre al di sopra delle parti. Perché solo in questo modo, lui ce lo diceva e noi ne abbiamo sempre fatto tesoro, solo così è possibile restare lucidi, essere capaci di esprimere il proprio giudizio. Un insegnamento di democrazia e di libertà, di capacità di sentire tutti alla stessa maniera, senza demonizzare nessuno, mantenendo però la propria capacità di analisi e valutazione. Io ho sempre cercato di restare fedele a questa sua indicazione, è rimasto un faro nella mia vita, non solo professionale.
Per questo gli devo un grazie profondo. Perché mi ha consentito di crescere, di avere amici, di far conoscere e apprezzare Il diario del lavoro. Adesso dobbiamo fare i conti con il dolore della sua assenza. Tanti anni fa furono le Brigate rosse a cercare di portarcelo via. Gli tesero un agguato, vile come solo sapevano fare loro, proprio sotto lo stabile dove è adesso la redazione del Diario del lavoro. Gli spararono e lo lasciarono in un lago di sangue, certi di averlo ucciso, e per questo uno dei loro deliranti comunicati ne rivendicò la morte. Ma gli amici che accorsero, Franco Marini per primo, lo salvarono. Adesso è stata una malattia lunga a portarcelo via piano piano. Lo piangerò, mi mancherà il suo sorriso, i suoi occhi ridenti, la profondità del suo pensiero, ma soprattutto la leggerezza che ha coltivato per tanti anni e che lo ha reso quel grande uomo che è stato. Un maestro, prima che un grande amico.
Massimo Mascini
5 ottobre 2009
























