Uno dei principali problemi delle relazioni industriali del nostro paese resta la scarsa adesione a sistemi meritocratici. Nei dibattiti non c’è nessuno che si tiri da parte quando si tratta di lodare uno stretto collegamento tra retribuzione e merito, nella pratica è tutto un altro mondo. Non fa notizia che Giorgio Cremaschi attacchi la Fiat perché, afferma, vuole ridurre quest’anno i premi di produzione. Il punto è che lui non è l’unico ad agire così.
Cremaschi, e i suoi compagni di strada, non capiscono che il premio di produzione non può essere una certezza, una realtà fissa. Sembra impossibile, ma dopo che per anni si è riso sul salario variabile indipendente, c’è ancora chi non ha afferrato la rivoluzione dell’accordo del 1993. Che fece proprio questo, assicurò la stabilità del salario di base e lasciò variabile la crescita del salario. Partendo dalla considerazione che le sorti dell’azienda non possono essere separate nettamente da quelle del salario. Sapendo che se si parte dal concetto che se ci sono soldi in più si dividono, se non ci sono non ce n’è per nessuno, la massa salariale che si distribuisce non è minore, ma maggiore che con il metodo precedente di assicurare qualcosa a tutti. La realtà è questa, distinguendo azienda da azienda si riesce a distribuire di più.
Lo hanno capito in moltissimi, ma non tutti. Cremaschi non ha ancora preso atto che il premio di produzione da 16 anni a questa parte non è più quello di una volta, non può restare intero anche nel pieno di una crisi forte come quella che ha colpito tutti i settori dell’industria, ma l’automotiv in particolare. Non meraviglia più di tanto, del resto, considerando che la Fiom ha presentato una piattaforma per il rinnovo del contratto biennale solo economico, quando tutto il resto del mondo sindacale, compresi i sindacati della Cgil, ormai punta a contratti triennali.
Ma, appunto, Cremaschi non è solo. Nelle piattaforme contrattuali presentate in queste settimane i sindacati di Cisl e Uil sono state per lo più attente a non debordare in tema di aumenti salariali dai limiti indicati dall’accordo del 22 gennaio, ma il timore, o forse anche qualcosa di più, e che questa attenzione sia destinata con il passare del tempo a lasciare spazio ad atteggiamenti molto più laschi, come è accaduto in passato. Come non sono poche le aziende che preferiscono, specie se sotto pressione, dare aumenti che valgano per sempre più che aumenti validi per il solo periodo di riferimento, salario fisso e non variabile.
Tutto ciò accade perché manca una vera cultura della partecipazione, perché la divisione tra capitale e lavoro resta sempre troppo profonda, perché non si è capito che il padrone di una volta forse esiste ancora in qualche piccola azienda, ma la realtà delle relazioni industriali è tutt’altra o tale dovrebbe essere. E finché la comprensione di questa necessità non sarà pratica diffusa, le relazioni industriali non compiranno quel salto che invece la realtà del mercato globalizzato impone a tutti.
14 luglio 2009
Massimo Mascini
























