Se si vuole avere un’esatta percezione dell’affaire Fiat è necessario tornare a qualche anno fa, quando l’azienda era sul classico orlo del baratro. La scomparsa di un’intera generazione imprenditoriale, le difficoltà del mercato, una serie di scelte produttive sbagliate, la mancanza di una strategia vincente, tutte queste concause avevano davvero messo in ginocchio la nostra più grande impresa industriale.
L’incubo parlava di una riduzione netto della produzione, della chiusura di molti stabilimenti. Se fosse andata bene la famiglia Agnelli avrebbe potuto vendere a qualche grande gruppo, che però avrebbe poi fatto quello che fanno tutte le multinazionali in questo caso, smembrano la produzione, la spezzettano, salvano il salvabile, per il resto non hanno certo un occhio di riguardo. Non era un’ipotesi tanto assurda, era qualcosa che tutti ci immaginavamo.
Poi è arrivato questo signore, forse mandato dal cielo, che ha rimesso le cose al loro posto. Ha fatto ripartire la produzione, ha dato il via a nuovi modelli, ha giocato bene con le alleanze internazionali, ha saputo tenere a bada le banche che mantenevano in vita l’azienda. E nel giro di davvero pochi anni ci troviamo con Barack Obama che indica proprio la Fiat come l’azienda in grado di risanare la Chrysler e in generale la produzione statunitense dell’auto. E dice che lo può fare grazie al suo management, fortissimo, e alla sua tecnologia, avanzatissima. Un risultato di eccezione che può portare alla creazione di un grande polo internazionale in grado di sopravvivere da protagonista nell’industria dell’auto di domani.
Questo crea dei problemi, naturalmente. Perché la fusione di grandi aziende, specie quando la produzione di queste imprese si sovrappone, porta a delle economie di scala, il che significa che alcune funzioni saranno di troppo e di conseguenza qualche stabilimento uscirà di scena o comunque subirà pesanti ridimensionamenti. E’ da credere che le macchine prodotte alla fine saranno più di quante se ne facevano prima, ma si faranno con meno stabilimenti, quindi con meno posti di lavoro. In ballo c’è la Germania, ma anche l’Italia, probabilmente. E’ normale che ciò accada. Per questo tutti, i sindacati tedeschi, ma anche quelli di casa nostra, fanno la voce grossa, dicendo che un ridimensionamento del numero degli stabilimenti è inaccettabile. Fanno il loro mestiere, ci mancherebbe altro che non agissero così. Ma l’attenzione dovrebbe spostarsi su altre cose. Salvare Termini Imerese o Pomigliano è certamente importante, ma lo è molto di più sapere dove sarà situato il cervello di questa azienda, dove saranno studiati i nuovi modelli. E’ come accade per le delocalizzazioni. Pesano, ma solo se non ci si limita a trasferire all’estero le produzioni più semplici e lasciare in patria le cose più importanti, l’ideazione e la preparazione dei nuovi prodotti, la gestione dell’impresa. Perché in questo caso l’operazione è positiva per il paese dal quale partono le aziende.
Hanno fatto bene allora i sindacati a chiedere che il governo convochi azienda e parti sociali per un’analisi della situazione e delle reciproche volontà, ma sarà bene che a questa riunione si vada con la massima attenzione alle cose valide, a quelle più importanti. Ed è da credere che con tutta probabilità Sergio Marchionne non vorrà perdere quei centri di studio che hanno consentito la crescita della tecnologia della Fiat. Perché fidarsi più dei tedeschi se è con gli italiani che si sono raggiunti risultati di successo?
Questa operazione sarà comunque determinante per l’industria italiana, perché gli interessi in gioco sono moltissimi e tutti capitali per gli equilibri generali del futuro. C’è da sottolineare che comunque questa partita ha riportato alla generale attenzione il nodo della partecipazione. I sindacati americani hanno tirato fuori dal cilindro la soluzione vincente proprio ricorrendo alla partecipazione. C’è da credere che tutto ciò non potrà non riflettersi anche sulle cose di casa nostra, aiutando quella conversione della mentalità delle parti sociali che, tranne poche quanto lodevoli eccezioni, hanno sempre guardato la partecipazione come una pratica inutile, se non dannosa. Per ricredersi c’è sempre tempo.
Massimo Mascini
8 maggio 2009
























