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Home - Approfondimenti - Analisi - Le ragioni del no della Cgil

Le ragioni del no della Cgil

23 Gennaio 2009
in Analisi

di Carlo Dell’Aringa

Alla fine l’accordo sulle nuove regole contrattuali è stato firmato. Da tutti, tranne la CGIL. Non è una mancanza da poco, anche se  era stata annunciata. La mancata firma non sembra dovuta a questioni ideologiche, almeno stando alle precise richieste che ha fatto la CGIL. In particolare la CGIL si è impuntata sul tasso di inflazione prescelto per i individuare gli aumenti dei minimi tabellari : viene criticato soprattutto il fatto di tenere fuori i prezzi dei prodotti energetici importati. Non è una differenza di poco conto, almeno in linea di principio. Di fatto, però, noi assistiamo, soprattutto in questi anni ad una altalena impressionante dei prezzi delle materie prime , “in primis” del petrolio. E’ giusto trasferire queste fortissime oscillazioni, sia pure attenuate, ai redditi dei lavoratori dipendenti, vale a dire a quasi due terzi del reddito nazionale?  La stragrande maggioranza degli studiosi sostiene di no e la stessa Banca Centrale Europea ha sempre cercato di dissuadere i Paesi membri dall’adottare forme di indicizzazione di questo tipo. Sono pericolose per la stabilità macroeconomica, in quanto  possono innescare pericolose spirali inflazionistiche, oppure possono causare, in presenza di un a politica monetaria non accomodante, ancor più pericolose cadute della occupazione ( con danno degli stessi lavoratori rappresentati dal sindacato).
Questo è il principale punto del contendere. Ma questo è anche uno dei pochi punti dell’Accordo che viene esplicitamente prescritto. Su quasi tutti gli altri punti vengono lasciati aperti molti margini di manovra , che verranno utilizzati dalla contrattazione di categoria. Soprattutto per la contrattazione di secondo livello. Non parliamo del settore pubblico che ha e avrà una contrattazione integrativa tutta particolare. Ma anche gli artigiani hanno la loro, come l’edilizia, il commercio, ecc. ecc.
Il modello contrattuale è invece unico e viene applicato allo stesso modo in tutti i settori, per quanto riguarda la definizione  (ogni tre anni)  dei minimi salariali nazionali. Il testo a questo proposito è molto chiaro e non lascia spazio a molti dubbi. Per gli aumenti dei minimi salariali nazionali si potrà far riferimento ad un indice previsionale costruito sulla base dell’indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo , depurato della dinamica dei prezzi dei beni energetici importati. E anche la verifica di eventuali scostamenti tra inflazione prevista e inflazione reale (verifica da fare per decidere  eventuali recuperi) si dovrà considerare i due indici sempre al netto dei prezzi dei prodotti energetici importati.
Su questo punto è difficile che ci siano ripensamenti da parte delle associazioni imprenditoriali che hanno firmato l’accordo. Ricordiamo che su questo punto il confronto si è protratto a lungo e ha richiesto molte mediazioni e la soluzione trovata rappresenta un vero e proprio punto di equilibrio. La CGIL vorrebbe che venisse accolta la formulazione accolta nel documento delle tre sigle sindacali che fu preparato prima dell’estate e che faceva appunto riferimento ad un indice di inflazione effettiva e non depurata. Quel documento rappresentava, per la CGIL,  il massimo di compromesso accettabile. Il punto è che quello era un compromesso ottenuto in “casa” sindacale, ma faceva “ i conti senza l’oste”. Era evidente che su qualche punto occorreva cedere. La Confindustria accettò di abbandonare il tasso di inflazione programmata a favore di un tasso “ragionevolmente prevedibile”, così come volevano i sindacati ( e che certo non era nella propria piattaforma), ma pose però anche le proprie condizioni. Questo è quanto succede nelle normali trattative. Vincere su tutta la linea non è sempre possibile.
Vi sono certamente altri punti dell’Accordo che la CGIL non condivide, ma ritengo questi di minore importanza. Come si è detto, gran parte dell’Accordo è costituito da norme programmatiche. Si tratta di indicazioni che vengono consegnate alle parti sociali che  negozieranno i contratti di categoria. E’ persino sparita la norma che indicava la retribuzione di riferimento cui applicare il tasso di inflazione previsto. Nelle Linee Guida firmate da Confindustria con Cisl e Uil, si faceva esplicito accenno al fatto che le retribuzioni di riferimento avrebbero dovuto includere solo le componenti fisse dei minimi nazionali. Ora, nell’Accordo, è sparito anche questo riferimento ( e per me è sbagliato: era un “paletto” importantissimo!). Su tutti questi punti la CGIL avrebbe benissimo potuto intervenire nel negoziato per cambiare qualche cosa che non fosse di proprio gradimento. In ogni caso avrebbe potuto rendere il testo ancor “più programmatico” di quanto non sia ora.
Ha voluto invece sbattere la testa sull’indicatore del tasso di inflazione. Francamente si tratta di una “mossa” che, a livello puramente negoziale, si può anche capire. Non si capisce però la decisione di ancorare a questa mossa la firma di tutto l’Accordo.

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